I.P.S.E.G. | Istituto Piemontese di Studi Economici e Giuridici
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America… America…

America… America…

Dicembre 2002 – Numero 82

Par che vi sia una tacita intesa fra diverse aree culturali e politiche (di “destra” e di “sinistra”) quando cercano di spiegarci cos’è l’America: quella di non andare a scavare nel sottosuolo fin dentro gli anni di F.D. Roosvelt (1933-1945), se non addirittura quelli di W. Wilson (1913-1921) o di Th. Roosvelt (1901-1909). C’è, in America, chi invece lo ha fatto, come lo scrittore americano Gore Vidal (tradotto peraltro anche da noi, come nel recente Le menzogne dell’Impero). I libri di storia sono poco propensi a dipingere in termini di visione mondiale della politica le decisioni che a partire dalla guerra contro la Spagna del 1898, e soprattutto nel 1917 (quando più di un milione di soldati americani si affollò nel nord-est della Francia) spinsero poi in modo inarrestabile la “valanga” americana su tutte le aree del mondo. Non si osa ancora (tranne eccezioni: notevole quella di G. Alvi nello stupendo Dell’estremo Occidente) osservare seriamente il ruolo avuto dagli USA nella politica compresa fra il 1917 e il 1941.

In secondo luogo il dibattito, nonostante le acrobazie di retorica mediatica,  retrocede davanti ai temi essenziali del rapporto tra Italia e USA nella storia del 1900, specialmente fra gli anni 1943 -1948: si direbbe, anzi, che la reticenza sui crimini compiuti dagli americani durante la Seconda guerra mondiale (poniamo: il massacro di 194 bambini, con 14 maestre e la loro direttrice, della scuola elementare “F.Crispi”, polverizzata dall’incursione aerea terroristica del 20 ottobre 1944 che distrusse il suburbio milanese di Gorla) dia l’occasione di rinfrescare la vecchia farsa dei “liberatori” e dei “liberati”: come per esempio ha fatto intendere il nostro ministro Martino quando ha definito i soldati italiani morti a El Alamein (1942) “caduti dalla parte sbagliata”, inciampandosi in un comico lapsus volontario: i nostri nemici erano persino già allora la “parte giusta”, come se il passato e il futuro fossero controvertibili!

In terzo luogo, le idee correnti sulla corsa alla guerra dell’attuale Presidente Bush sembrano ripetere  uno schema già visto nel 1991 (Iraq) e nel 1998 (Serbia, Bosnia). Obiezioni ve ne sono, da molte parti, senza però mai porre seriamente il problema della posizione italiana nelle cosiddette “alleanze”: benché siamo tutti ormai certi che le “alleanze” (ossia la NATO) sono solo delle coalizioni per guerre “preventive”, cioè non dichiarate e con compiti di “polizia” internazionale! Credo che la pagina intera che il Foglio ha dedicato al pensiero di Sergio Romano il 14 Dicembre scorso meriti tuttavia una particolare attenzione.

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Ma la discussione ha anche il merito di affrontare il tema dell’Occidente nel significato che questa parola viene ad assumere, oggi, come “luogo eminente” dell’America. E qui vorrei fare poche considerazioni che mi paiono importanti. Non è un caso che il dibattito si sia orientato subito, dopo l’11 Settembre 2001, sull’Islam e sulla distanza tra la “laica” civiltà occidentale e quella islamica a senso “teocratico”. Il confronto ha dato luogo a un allargamento del tema in termini di scontro di civiltà storiche, con l’uso di categorie della “guerra fredda”: come, cioè, se “l’avanzata dell’Islam” prendesse, assurdamente, il ruolo di successore dello sconfitto Comunismo mondiale nel confine ideale che taglia la terra in due (però invito a leggere la raccolta di articoli curata da Franco Cardini col titolo La paura e l’arroganza). Si direbbe, a questo riguardo, che la nostra povertà d’immaginazione non voglia abbandonare lo schema del bipolarismo Occidente-Oriente (almeno in termini ideali). Ma funziona questo schema?

Solo se si ha una certa idea di Occidente questo schema può continuare a funzionare. L’idea però proviene dalle viscere stesse dell’America e non rappresenta propriamente una novità. Fin dalle origini certi inglesi d’America decisero di concepire se stessi come la manifestazione di una missione provvidenziale per il mondo intero, come strumenti di Dio nella sua lotta apocalittica contro il male, l’Anticristo: allorché nel 1630 un Puritano della colonia congregazionalista diretta in New England pronunciò le parole famose del “sacro esperimento” del Massachusetts: «Noi siamo una città sulla collina in piena vista per tutta la terra e gli occhi del mondo sono puntati su di noi, perché ci professiamo un popolo che ha stretto un patto con Dio». Da questo punto di vista dal 1776 gli Stati Uniti non incarnano semplicemente l’emancipazione di una colonia inglese dalla madrepatria, ma la prepotente assunzione della guida del mondo come una chiamata divina. La terra promessa d’Israele, cioè il regno di Dio, è l’America. Erich Voegelin ha sostenuto che questa utopia prospetta una sorta di “redivinizzazione” della terra: un progetto assoluto e invasivo che solo le odierne tendenze della democrazia stanno manifestando compiutamente.

La democrazia nacque col mito della repubblica, una forma di libertà civile che incarnava un cristianesimo puramente spirituale e messianico, proprio del calvinismo. Non era il principio della libertà di scelta (quello che noi chiamiamo il libero arbitrio), ma il compito di una liberazione dal male strettamente vincolata all’autorità del corpo sociale. L’esclusività di questa utopia di eletti incontrò a un certo punto il darwinismo, in cui riconobbe il fondamento scientifico della propria concezione provvidenzialistica. La scienza moderna, evoluzionista, le fornì la base concreta del razzismo. La razza anglo-sassone d’America diventò la depositaria della missione di esportare in tutto il mondo la causa della democrazia, attraverso il suo dominio futuro, deciso da Dio. Per esempio, intorno al 1885 (a mezzo tra la fine della Guerra civile e la guerra contro la Spagna per Cuba e le Filippine) ebbe straordinaria diffusione negli USA l’opera del pastore congregazionista Josiah Strong, Our Country. Citiamone una pagina: “La mia fiducia che questa razza imponga alla fine la sua civiltà al genere umano non è basata semplicemente sui numeri: la Cina lo vieta! Io vado invece guardando a ciò che il mondo non ha ancora mai visto riunito in una sola razza, cioè la popolazione più elevata e la civiltà più alta. Qui da noi si è sviluppata la forma di governo conforme alla libertà civile più ampia possibile. Inoltre è significativo il fatto che la marcata caratteristica di questa razza risulti esaltata tra di noi. Tra i tratti più evidenti della razza anglo-sassone è la sua straordinaria capacità di fare denaro”. Non mancavano anche i toni apocalittici: “Sta venendo il tempo in cui la pressione delle popolazioni sui mezzi di sussistenza si farà sentire qui come ora si fa sentire in Europa e in Asia. Allora il mondo entrerà in una nuova fase della sua storia: la competizione finale delle razze, per la quale la razza anglo-sassone si sta preparando” (il corsivo è nel testo). Alla luce di passi come i seguenti, si predefinisce il quadro della guerra del 1898, ma anche del ruolo avuto nelle due guerre mondiali dall’America di Wilson e poi di F.D.Roosvelt, e anche dell’America  di  Truman, di Kennedy e di Nixon, dei due Bush: “Assai prima che migliaia di milioni di esseri umani si trovino qui, la potente forza centrifuga, innata in questa razza e successivamente rafforzatasi negli Stati Uniti, si affermerà. Quel giorno allora questa razza di incomparabile energia, con la forza del numero e la potenza della ricchezza, portavoce della più ampia libertà, così speriamo, del più puro cristianesimo, della più alta civiltà, avendo sviluppato in un modo particolarissimo i suoi tratti aggressivi organizzati per imporre le sue istituzioni all’umanità, si diffonderà su tutta la terra”.

Queste tesi non erano certo idee isolate. L’evoluzionista John Fiske pubblicava nel 1895 Il destino manifesto con pagine profetiche come questa: “L’opera civilizzatrice della razza inglese, cominciata con la colonizzazione del Nord-America, è destinata a proseguire finché tutta la superficie terrestre in cui la vecchia civiltà non si è ancora insediata, non sarà diventata interamente inglese, per lingua, religione, istituzioni e tradizioni politiche” e ancora “Tutti gli affari del mondo verranno trattati da persone che parlano inglese, e ciò avverrà in misura tale che, qualunque lingua si sia imparata nell’infanzia, si riterrà necessario, prima o poi, esprimere i propri pensieri in inglese”. E proprio all’indomani della guerra contro la Spagna, nel 1898, Albert Beveridge infiammava una folla immensa a Indianapolis con argomenti come questo: “L’oceano non ci separa da quelle terre che sono oggetto del nostro dovere e del nostro desiderio; l’oceano anzi ci unisce, come un fiume che non deve più essere dragato, come un canale che non deve mai essere riparato. Ci unisce il vapore, l’elettricità; gli stessi elementi fanno lega con il nostro destino. Si dice che Cuba e Portorico non sono contigue! Che le Hawaii e le Filippine non sono contigue! Gli oceani le rendono contigue. La nostra marina le renderà contigue!”.

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L’argomento non era retorico. Il più grande teorico navale americano di tutti i tempi, l’ammiraglio Alfred Mahan, le tradusse in una dottrina militare che caratterizzò il nuovo corso politico delle presidenze di Mc Kinley e di Theodore Roosvelt. La supremazia commerciale, e perciò militare, degli Stati Uniti era dettata dalla stessa legge di selezione naturale: “Che lo vogliamo o no, l’America deve ora guardare oltre i propri confini. La crescita produttiva del paese lo impone, come pure un crescente sentimento popolare. La posizione degli Stati Uniti fra i due vecchi mondi e i due grandi oceani impone questa soluzione, che presto verrà consolidata attraverso la creazione di un nuovo legame tra l’Atlantico e il Pacifico” [il canale di Panama fu inaugurato nel 1914]. Mahan riassumeva nel principio del Sea power, cioè del dominio dei mari, la necessità di creare una forza navale che desse agli USA la capacità di lottare contro Europa e Giappone, per la propria stessa sopravvivenza, su base planetaria (solo alla Gran Bretagna veniva riservata una partnership per via della comunanza razziale).

La strategia del Sea power in pratica applicava alle relazioni commerciali i principi dello stato di guerra, con il controllo dissuasivo di tutti i punti strategici della terra. “Non vi sarebbe più stata, a partire da allora, una distinzione fra rapporti internazionali in condizioni di pace e quelli in condizioni di guerra” scrive Germana Tappero-Merlo in un suo ben documentato studio su William Mitchell e la dottrina militare degli Stati Uniti fra le due guerre mondiali. Mahan sosteneva che “la guerra non è combattere, ma fare affari”. La dottrina del Sea power non rientrava semplicemente nelle dottrine di tecnica militare, perché possedeva un presupposto ideologico: il compito di imporre la democrazia alle altre nazioni. La radicalizzazione della guerra doveva giustificarsi con il disegno divino che aveva dato agli americani questa missione, ed era preferibile al pericolo di “una acquiescenza morale con il male”.

L’avvento dell’arma aerea, con la Prima guerra mondiale, determinò il mutamento della dottrina del Sea power in quella del Air power e il suo profeta fu appunto il generale William Mitchell. L’America degli anni Venti non è solo quella del charleston, dei gangster e del proibizionismo, ma è anche l’America delle leggi razziali e in particolare della xenofobia antigiapponese. Il “pericolo giallo”, yellow peril, costituiva un elemento fondamentale della politica americana e a partire dalla Conferenza di Washington (1921-22) iniziò quello stato d’assedio che fu chiuso dalle bombe atomiche nel 1945. W. Michell visitò il Giappone e l’intero sud-est asiatico fra il 1923 e il 24, riportando in patria un quadro pessimistico per la sicurezza dell’Impero americano del Pacifico. I termini erano questi: “I giapponesi stanno rivendicando un egual diritto di parola, una eguale posizione e un egual diritto di vivere e lavorare dove desiderano, a fianco e nelle stesse condizioni delle genti bianche”. Ciò significava per il Giappone l’espansione commerciale e la creazione di punti di rifornimento per il ferro e il petrolio, che lo facevano rendere sempre più dipendente dall’azione esterna, sia politica e commerciale che militare.

Ma il punto era, secondo un rapporto di Mitchell del 1924, la necessità di una nuova mobilitazione dell’America: “La decisione se debba essere la cultura europea o quella asiatica a regolare in futuro il mondo, spetta agli Stati Uniti.. Noi dobbiamo renderci conto, alla fine, che siamo i rappresentanti della razza bianca nei mari occidentali. Noi siamo gli unici a sostenere la civiltà dei bianchi nel Pacifico … Ci troviamo di fronte a un problema molto più grave, quello di mantenere non solo la nostra supremazia politica, ma anche la stessa sopravvivenza della razza bianca”. La vecchia Europa era palesemente incapace di affrontare un impegno simile: “E’ abbastanza evidente che la lotta debba essere portata avanti dalle popolazioni bianche del nuovo mondo, e, di questo nuovo mondo, soprattutto dagli abitanti dl Nord America”. E’ interessante capire l’ottica da cui Mitchell interpretava il ruolo americano nella Prima guerra mondiale: “La Guerra Mondiale è stata combattuta soprattutto per decidere chi dovesse controllare le vie commerciali verso l’Estremo oriente e il Pacifico”.

Di qui i due capisaldi della “dottrina” Mitchell. Il primo era rappresentato dal controllo delle Filippine con il concorso dell’altra potenza anglosassone “asiatica”, la Gran Bretagna. Il secondo caposaldo era la trasformazione della guerra in strategia aerea di bombardamento. Ciò gli costò un durissimo scontro con i Comandi della Marina. Ma il punto che qui solo ci interessa è la sua visione, a un tempo spregiudicata e apocalittica, della guerra che l’America doveva prepararsi a fare: “Nelle guerre passate, l’obiettivo di una nazione era la distruzione sul campo della totalità delle forze armate nemiche. Ora sappiamo che questo era un obiettivo falso e che ciò che noi dobbiamo raggiungere sono le città, le zone di produzione ed industriali, e i mezzi di trasporto della nazione nemica … Il  centro vitale è l’obbiettivo … E’ stato dimostrato che i veri obiettivi in guerra sono i posti in cui la gente vive e lavora e da cui trae il proprio sostentamento, Le forze aeree, imponendo l’evacuazione e la neutralizzazione di questi punti vitali, porterà la guerra a una rapida conclusione … Gli aeroplani e i gas saranno le armi principali nelle guerre future e le battaglie saranno vinte dal paese che  sferrerà il più pesante attacco dal cielo”.  Qui non ci interessa, naturalmente, l’evoluzione delle teorie strategiche militari di allora (in Italia, erano parallelamente sostenute dal nostro Douhet). Il punto è che effettivamente, dal 1941 in poi, le tesi mitchelliane vennero praticate alla lettera dai governi anglo-americani.

Questa visione, ritenuta essenziale alla propria esistenza di grande potenza, suppone non solo una certa idea su come fare la guerra, ma un modo di intendere sé e la propria politica nel mondo. Certamente la realtà di un paese come gli USA è assai più complessa di questa mia selezione di testi (che in particolare devo alla consultazione di P.Bairati, I profeti dell’impero americano, che risente degli anni 70; di T.Bonazzi, Il sacro esperimento; e dell’opera di Germana Tappero-Merlo su W. Mitchell). Tuttavia non c’è dubbio che l’odierna “dottrina Bush” contenga non pochi elementi riconducibili a una tradizione sufficientemente univoca, che si è venuta consapevolmente esplicitando nel corso della storia prima e dopo il 1776, quando la “repubblica” puritana prese a distanziarsi dalle politiche dinastiche europee, fino alle tappe cruciali del 1848 (annessione dell’Ovest), del 1861 (guerra civile), del 1898 (Cuba e Filippine), del 1917, del 1935 (discorso roosveltiano della “quarantena”), del 1945 (atomiche) e così via.

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La National Security Strategy presentata dal Presidente Bush lo scorso Settembre ha sostenuto che il terrorismo verrà sconfitto “by defending the United States, the American people, and our interests at home and abroad by identifying and destroying the threat before it reaches our borders. While the United States will constantly strive to enlist the support of the international community, we will not hesitate to act alone, if necessary, to exercise our right of selfdefense by acting preemptively against such terrorists, to prevent them from doing harm against our people and our country” (il corsivo è mio). E’ evidente che l’America si muove ormai come Internet. Un mondo senza confini si compenetra di America; ovunque è America, questo è l’unico Occidente di cui oggi si possa parlare, come un’anima mundi. Il resto, l’altra faccia del mondo è, attualmente o virtualmente, terrorismo. Tuttavia questo è un falso dilemma, in cui è possibile che non ci riconosciamo affatto. Il dilemma deriva dall’utopia della città di Dio secolarizzata, che nel 1630 sulle sponde del Nuovo Mondo inaugurò il totalitarismo dell’organizzazione e della razionalità.

                                                  m.c.

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