I.P.S.E.G. | Istituto Piemontese di Studi Economici e Giuridici
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Appunti sulla Democrazia

Appunti sulla Democrazia

Febbraio 2003 – Numero 84

Join us in our crusade or face the certain prospect of death and destruction“.
If you are not with us, you are against us“.
Good and Evil rarely manifest themselves as clearly“.

Citazioni dal discorso di George Bush rivolto soprattutto all’Europa all’indomani dell’11 Settembre 2001


E’ interessante notare la contiguità che esiste tra l’immagine mediatica di Bush che fa dichiarazioni  asciugandosi il sudore del collo durante la gara di golf o nel salire sull’elicottero per recarsi nel suo ranch,   proprio come se l’esercizio del potere in America fosse l’imprevista interruzione di un week-end; e il fatto che la democrazia americana si presenti in genere con un doppio volto, quello pedestre dell’hobby del giardinaggio o del jogging e, alternato, quello violento della pistola spianata che esplode e ammazza.

L’osservazione, naturalmente, è del tutto provvisoria e richiede un approfondimento. Il crogiuolo mediatico della democrazia è naturalmente il cinema di Hollywood, e non a caso ho citato la sequenza-tipo di migliaia di film hollywoodiani. Ma c’è qualcosa dietro le immagini mediatiche, e se sì cosa c’è? Si è compiuta una profonda osmosi tra la democrazia e il cinema, che ne è la rappresentazione. La democrazia è diventata cinema e divulgazione mediatica.

Per esprimere meglio il pensiero, si prenda, in via di approssimazione, il termine “pubblico”, nel senso in cui noi lo adoperiamo opponendolo a “privato”. Da noi pubblico e privato possiedono una forte distinzione, perché dicendo “privato” pensiamo subito alla casa, alla famiglia, al singolo, all’intimità della persona e così via. E dicendo “pubblico” il pensiero va alle istituzioni, ai servizi, agli ambienti di lavoro, ai luoghi di cultura e divertimento. Ebbene, l’essenza della democrazia statunitense sembra consistere nell’abolizione di tale distinzione, almeno dal punto di vista ideale. Lo testimonia l’ossessiva tendenza all’auto-rappresentazione attraverso il cinema, che è la proiezione del quotidiano a iperbole. Solo l’America ha dato al cinema il ruolo esclusivo di rappresentare il proprio way of life, nobilitato a rituale che il sistema americano celebra col valore di norma universale. L’apparente bisogno dell’America di essere spettacolo a se stessa rivela la prepotente necessità di proliferare, moltiplicarsi e riempire i luoghi della terra: lo spirito della comunicazione è una direzione unilaterale all’infinito.

Non si può davvero comprendere il concetto americano di democrazia, senza valutare bene la sua vocazione missionaria (che richiede, Bush ce lo ha ricordato, l’uso della forza). Al tempo della guerra del Golfo (1991) il filosofo americano Russel Kirk denunciava la vocazione di G. Bush padre a rilanciare la concezione wilsoniana (1917) del “salvare il mondo con la democrazia”. Oggi la dottrina democratica, lungi dall’essere un semplice sistema elettorale, possiede una pretesa di giudizio verso ogni altro territorio spirituale, esitando a dare riconoscimento a una diversa configurazione della sovranità. I teorici della democrazia sembrano negare che esista una coscienza morale dove non c’è un sistema democratico. Dipingono certe forme istituzionali come violente, sanguinarie, persino mostruose, usando le tinte con cui i pittori del passato dipingevano i cattivi persecutori di Cristo. Il caso più famoso riguarda la soppressione, imposta nel 1945 dalle autorità di Washington in Giappone, della sovranità imperiale basata sul culto shintoista. Wilson nel 1917 pretese la fine del sistema imperiale della Germania bismarckiana, provocando il vuoto futuro. C’è da chiedersi, tra il serio e il faceto, se anche la monarchia “assoluta” dello Stato del Vaticano non finirà un giorno sotto accusa.

E’ un punto sul quale si deve tuttavia riflettere, perché è questo messianismo democratico a legittimare il rifiuto del diritto internazionale e le guerre non dichiarate. Tempo fa il governo americano ha dichiarato che pur finanziando il Tribunale penale internazionale dell’Aja non accetterà mai di veder processato un cittadino americano da quell’istituzione. Ha denunciato il Trattato di Tokio contro i gas. Ha liquidato pesantemente la Corte Internazionale che la condannava per i bombardamenti in Nicaragua. Il 9 marzo il generale Angioni ha affermato che l’attacco all’Iraq è una guerra scatenata senza che vi sia alcun casus belli.

Arthur Schlesinger ha denunciato: “L’amministrazione Bush ha adottato misure lesive dei diritti umani nei confronti di americani e di stranieri sospettati di terrorismo”. Bush e i suoi collaboratori sostengono che si tratta di provvedimenti modellati su quelli della Seconda guerra mondiale. Nel 1943 centoventimila americani di origine giapponese vennero deportati in campo di concentramento, e lì costretti a firmare uno speciale giuramento che rinnegasse ogni legame con il popolo giapponese, sotto la minaccia di vent’anni di pena. Gli obiettori vennero poi deportati nel brutale Centro di Segregazione di Tule Lake, nel nord della California (M.Mueller, L’aria che respiravamo, pubblicato sia da Corbaccio che da TEA).

Dobbiamo perciò interrogarci su una concezione che delegittima i sistemi politici che la storia di altri popoli ha creato nel corso del tempo. L’attitudine a giudicare ogni diverso regime come criminale ha l’antecedente solo nell’ideologia comunista, che pur fra molti temporeggiamenti diplomatici non cessò mai di giudicare “nemici” gli Stati non comunisti. Oggi noi definiamo “ideologico” un tale atteggiamento, e giustamente lo condanniamo. Se un libro assurdo come quello di Hanna Arendt non avesse, all’inizio degli anni Cinquanta, avuto tanta fortuna da segnare la nascita del termine “totalitarismo”, oggi ripetuto pedissequamente da tutti, l’equivoco della posizione americana sarebbe molto più chiaro. La Arendt scrisse “La nascita del totalitarismo” come postuma requisitoria contro il nazional-socialismo, ma gli editori americani rifiutarono di pubblicare un’opera del genere: non solo perché era un’antistorica accozzaglia di citazioni eterogenee sulla Germania di Hitler, ma per il fatto che fosse priva di ogni riferimento al comunismo sovietico, allora divenuto il nuovo nemico. Perciò la Arendt vi aggiunse in fretta un paio di capitoli (usando altre pubblicazioni) sulla URSS (J.Lukacs). Oggi “totalitarismo” nella vulgata comune significa “nazismo e comunismo”. Ma ciò pregiudica una vera comprensione di ciò che è la “democrazia americana”.

Inoltre dobbiamo domandarci se altri sistemi, che salvaguardino l’esigenza della rappresentanza dei soggetti e il consenso delle popolazioni, non abbiano la stessa legittimità della democrazia americana. Oggi i sistemi elettorali delle democrazie sono ridotti a gare televisive che poco hanno di genuinamente politico. Conta l’abilità, la simpatia, l’accattivarsi il pubblico, e queste sono veramente le qualità dei presentatori televisivi. Negli USA vota di fatto una infima parte della popolazione. L’informazione politica è certo notevole (grazie alla televisione) ma … è solo televisione! La democrazia moderna si basa su un popolo di spettatori televisivi. D’altra parte, sono personalmente convinto che il sistema corporativo, quale fu sostenuto dalla cultura cattolica attraverso i secoli (e fu promosso, tra non poche contraddizioni, dallo Stato fascista nei primi anni Trenta) costituisca una valida alternativa alle assemblee  parlamentari “di avvocati e intellettuali”, per usare un’espressione icastica di G. Miglio a proposito dei sistemi usciti dalla Rivoluzione francese che distrussero le rappresentanze distinte dei ceti.

D’altra parte però la democrazia americana non raggiunge affatto la coscienza delle persone. Il dibattito secolare nella realtà multietnica degli USA ha visto lo scontro tra il moralismo protestante dei cosiddetti Know-Nothing, (“Ignoranti”), repubblicani fanatici e anticattolici, che non intendevano concedere i diritti politici agli immigrati di razza diversa da quella anglo-sassone, e i pluralisti che, riconoscendo che non esiste nessuna nazione, nessuna patria, nessuna terra natìa che siano propriamente “americane”, concepiscono gli USA in modo affatto diverso da quello che distingue le nazioni europee: “Gli Stati Uniti hanno una peculiare anonimia“. L’americano Michael Walzel riassume le tesi di un teorico del pluralismo come Horace Kellen, di origine ebrea, affermando che “gli americani non hanno un’interiorità loro propria; essi hanno un’interiorità solo perché guardano indietro” (cioè solo per  quanto resta della nazione originaria di ciascuno). Ma la memoria si dilegua a poco a poco. Ciò vuol dire che gli USA oscillano continuamente tra le improvvise campagne a sfondo “americano” contro la puntuale “minaccia all’America”, e le rivendicazioni di questa o quella nazionalità discriminata all’interno del paese. La presidenza di Bush è un esemplare del primo tipo.

Ma in entrambi i casi la loro radice è l’immigrazione e soltanto questo. Questo spiega anche il fatto che l’America è solo e sempre una somma d’individui, perché non c’è alcuna base territoriale che corrisponda a un gruppo nazionale, né una storia o una cultura comuni. Proprio per questo la democrazia americana deve essere un fatto continuamente sbandierato. La sola unità che esista negli Stati Uniti è politica. Questa rappresentazione della democrazia come un assoluto nasce dunque dal suo bisogno di visibilità, che almeno teoricamente non ammette soste. Ed è in questo che consiste, nella sostanza, la concezione americana della libertà. Quello di libertà, contrariamente a quel che si crede, non è un concetto univoco. In Europa libertà significa in genere l’espressione di una sfera spirituale più alta di quella puramente politica. Ma in America è l’affermazione personale, il successo, la ricchezza. Il poter appartenere all’immagine visibile della società. Questa immagine è una dilatazione dell’ego più che uno spazio interiore.

La contrapposizione insistita (salvo eccezioni, quando serve all’interesse economico) tra democrazia e dittature non si basa sul problema dell’approvazione e del consenso di una popolazione. Se il problema consistesse nel consenso, Hitler sarebbe stato certamente più popolare e democratico in Germania dello stesso Roosvelt negli USA (non ho elementi per dire la stessa cosa di Saddam Hussein rispetto a Bush, ma quest’ultimo vinse le presidenziali nel modo che tutti sanno). Naturalmente entra in gioco il rapporto con le opposizioni e con le minoranze. Dal punto di vista delle sue minoranze, però, la storia americana ha un passato che non le consente di salire in cattedra; basti pensare alla sorte dei pellerossa, ai neri, ai latino-americani. Il problema invece consiste in questo, probabilmente: che le dittature in quanto tali resistono alla necessità di esportazione della democrazia americana. Si sa che le rivoluzioni europee del passato (1789, 1917) per sopravvivere dovevano essere rivoluzioni mondiali, giustificarsi con l’universalità e perciò dare luogo a guerre d’esportazione: era una questione di vita o di morte.

Ciò vale ancor di più per la democrazia americana. La perentorietà sta esattamente nella pretesa di universalità e nel bisogno perciò di farsi mondo. Non è forse un caso che gli Stati Uniti si siano appropriati della parola “America”. La missione americana nel mondo si annuncia, come per quelle rivoluzioni, nella liberazione dei popoli dal dispotismo. L’universalità passa attraverso simboli che svuotano l’uomo storico per liberarlo attraverso astrazioni: il citoyen, il proletario, il globalizzato. Ma c’è un fatto nuovo rispetto alle rivoluzioni europee del passato: la democrazia americana è mondiale grazie alla tecnica, ed è la tecnica a costituire la sua anima più vera. Anche il concetto americano di libertà si risolve definitivamente nella tecnica.

La moderna tecnica, lo sappiamo bene, ha un duplice volto, come Giano: quello “pacifico” del commercio e quello militare. In realtà quel volto è uno solo, perché tutte le guerre americane hanno avuto sempre uno scopo economico, e l’economia USA si regge sulle guerre ricorrenti. La prima guerra mondiale sostituì l’area della sterlina con quella del dollaro, la seconda fece in briciole tutte le aree economiche esclusive degli Stati nemici. Ma la tecnica è sia la potenza nucleare sia il dominio dell’informatica, oggi saldati insieme. Non si può assolutamente separare la democrazia americana dalla bomba atomica e dall’informatica, benché l’una e l’altra possano finire anche tra le tende dei beduini. Il cervello, come il padre segreto dei “replicanti” nel film Blade Runner, si cela nei luoghi in cui vengono elaborati programmi di portata mondiale.

Qui si trova tuttavia anche il punto critico. E’ un fatto che la replica mediatica dell’America, il suo cinema, abbia precorso insistentemente lo sbocco nella catastrofe. Diecine e diecine di pellicole hanno rappresentato la finis Americae, l’apocalisse del way of life, attraverso il disastro ecologico oppure quello terroristico. Quest’ultimo sale in testa negli ultimi anni e la minaccia terroristica alla sopravvivenza dell’America viene sventata da un eroe-poliziotto che all’ultimo momento sconfigge l’Hitler di turno. La decifrazione però è che il fondo tecnologico del way of life convive con la paura, e il nemico terrorista è l’immancabile caricatura degli spettri che popolano la memoria americana degli ultimi cent’anni di guerre di liberazione contro il “nemico del mese”, secondo la sarcastica espressione di Gore Vidal. Lo scrittore americano stende un elenco di 206 guerre portate in tutto il mondo fra il 1945 e il 2001.

La democrazia americana confina con il Male e deve incessantemente difendersi dal suo assalto mortale. Dal 1898 al 2003 le guerre americane nel mondo hanno superato ogni record storico, un elenco che attraversa la geografia di tutta la terra e che dall’inizio degli anni Quaranta ha quasi ininterrottamente devastato le città e i villaggi del pianeta con i più disumani bombardamenti aerei che l’immaginazione possa concepire.

La frequente apparizione di scenari apocalittici nel cinema americano si origina dal fondo della sua anima, è incubo che tinge di fanatismo anche la missione democratica di Bush. Le Torri gemelle, con il loro mostruoso spettacolo, hanno esposto quell’incubo in uno specchio non più solo metaforico: lo hanno propriamente smascherato.

Sulla pagina del Foglio dell’1 marzo due insegnanti di politica internazionale a Oxford, E.Ottolenghi e G.Verderame, giustificano la strategia americana del “primo colpo” con la tesi della necessità di modificare il diritto internazionale perché, in pratica, i terroristi non lo rispettano. Essi sostengono che Powell e Blair, eludendo il diritto internazionale, vogliono adeguare gli strumenti giuridici e istituzionali a un nuovo contesto strategico e militare, rappresentato non più dalla minaccia di uno Stato, ma dalla figura incontrollabile del terrorista bio-atomico. Questa è una ipocrita inversione del rapporto di causa ed effetto. Il terrorismo, per quanto deprecabile, è la conseguenza della politica americana di occupazione dei territori del mondo. Opporre democrazia e terrorismo ha senso soltanto se si comprende anche il carattere invasivo della prima: il nemico “che non sta più di fronte” è l’effetto speculare della tecnica dei bombardamenti senza stato di guerra o della presenza militare americana nel suo paese e se c’è sproporzione (“guerra asimmetrica”) non è difficile stabilire chi sia Davide e chi Golia.

E questo, se si guarda bene e fino in fondo, è anche il senso dello scontro in atto fra il carismatismo protestante di Bush e della propria cerchia, e la Chiesa cattolica. Nel suo discorso quaresimale di domenica 9 marzo il Papa ha chiamato in causa l’ispirazione di Satana, sempre presente negli ossessivi interventi di Bush sul Male. Ma l’ha ricondotta al nemico interiore, non a quello di una guerra per la democrazia, facendo anzi intravedere il carattere demonico di un’affermazione di potenza temporale che pretenda di incarnare un assoluto politico-religioso: l’America come luogo della Terra Promessa, come Israele terrena.

m.c.

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