Gennaio 2003 – Numero 83
(Agli amici de “Il Cervo bianco”)
Il pensiero di Platone è vivo perché riapre sempre la questione del rapporto tra la verità e l’uomo. La nascita della filosofia è la verità che si presenta al pensiero come necessità (in rapporto al mutevole, al transeunte). Ma la svolta della filosofia greca, nel corso del quinto secolo, avvenne con l’opera di Socrate, che mise in gioco l’uomo come il luogo in cui nasce (arte maieutica) la verità.
Con Socrate ciò che apre è la domanda, e quindi la forma del problema, entro l’annuncio gravido di conseguenze della via dell’Essere “che veramente è”. Socrate si distinse dai Sofisti perché per lui la domanda, se rendeva ben chiaro che la filosofia muove proprio dai limiti dell’uomo, suppone tuttavia un orizzonte già aperto in cui il che cos’è (tì esti) risuona.
Quando la filosofia di Platone divise l’unità originaria dei presocratici e dello stesso Parmenide, presupponendo almeno due principi in tensione tra loro, quello dell’idea e quello della materia, si approfondì il processo aperto da Socrate, perché la domanda (dell’uomo, anzi come essenza dell’uomo) stava dentro a un orizzonte abitato da significati, cioè da idee, e perciò rivelativo.
Ora questa relazione, che sta al centro della filosofia, è l’iniziativa del Bene. Infatti la relazione tra domanda (dell’ente finito) e orizzonte rivelativo esiste già anticipatamente, e i significati vengono incontrati, non posti arbitrariamente (convenzionalismo linguistico dei Sofisti).
Ciò voleva dire che c’è un rapporto genetico tra la verità e il pensiero che la pensa (e la dice). Invece i Sofisti chiusero l’uomo nella (dorata) prigione della sua stessa parola, la cui immensa potenza veniva sottratta a qualsiasi orizzonte di verità, cioè rivelativo.
L’universo semiologico moderno corrisponde esattamente alla concezione del linguaggio che era propria dei Sofisti, gli avversari. E’ dunque la presenza del Bene come arché a modificare radicalmente il quadro della filosofia, chiamando in causa l’uomo come pensiero e come parola nella presenza della verità. Prima di Socrate/Platone il rapporto tra l’uomo e la verità posto dalla filosofia era sostanzialmente statico e dogmatico, in una condizione di estraneità (quella sublime “indifferenza” che ben mise in luce la filosofia di Leopardi): saggezza era la moderazione e il distacco, o “defilarsi” il più possibile: la divinità è “invidiosa”. La tragedia antica rappresenta la potenza travolgente del destino e lo stesso Logos di Eraclito è la verità di un’armonia tremenda, oscura e incurante, assai differente dall’”armonia visibile” concepita dagli uomini.
D’altra parte la posizione neo-gnostica domina largamente la cultura del nostro tempo con il senso schiacciante del male. Abbiamo anche qui una situazione simmetrica a quella del tempo di Platone. Il neo-gnosticismo mette radicalmente in discussione l’idea platonica di un’amicizia tra il vero e gli uomini (gli dèi, ripete Platone, sono “senza invidia”, espressione anti-tragica; esclusione della tragedia). La forma oggi più diffusa di neo-gnosticismo è la teologia cenotica di origine cabbalistica (es. Jonas, Pareyson). La filosofia tragica di Pareyson pone il mistero del male nella natura stessa di Dio.
Per Platone il rapporto tra l’uomo e la verità è un realizzarsi nel Meglio: tale rapporto, dinamico e non statico, chiama in causa l’azione e quindi ha una natura etica, facendo del divenire umano la possibilità della virtù (“areté”). Il punto è che il sistema, o per meglio dire l’armonia delle idee rende possibile la relazione della verità con i significati umani, cosa che la filosofia presocratica negava parzialmente, e il movimento sofista risolveva nella sua semiotica nichilista e relativista.
Il senso del riferimento della verità al Bene consiste dunque nel fatto che un kosmos di significati, cioè di logoi, possiede il carattere di necessità, eterna e immutabile, che è proprio dell’Essere (eleatico). Ma “logos” è espressione eraclitea che vale come “unificante secondo necessità”, come “ciò che raccoglie insieme e tiene unito”. I logoi di Platone, cioè le idee, scavano dentro l’essere una molteplicità infinita di “unificanti”. “Unificare” è il senso delle idee e della loro armonia: un sistema di unificazioni sempre più ampie e involgenti. La suprema, cioè la più grande di queste unificazioni, è il Bene: la più alta necessità.
Pertanto con Platone il significare umano, senso e scopo del nostro pensare, non è né vaneggiare tragico (Edipo ecc.), né dimenticare dicendo (Eraclito), né opinione (Parmenide), né arte di persuasione (Sofisti), ma luce che riflette una fonte luminosa, un Sole.
Socrate aveva svelato la sostanziale dialogicità della filosofia come domanda dell’essere. Platone porta il dialogo nell’Essere stesso, facendolo corrispondere addirittura alla forma del pensare umano. Dialogo non vuol solo dire domanda e risposta, ma fonda queste ultime sulla natura relazionale dell’Essere. L’Essere è relazione intrinseca (è questo il famoso parricidio) e perciò include la molteplicità, unificandola in una trama fittissima di relazioni appunto. L’unità fra le idee è un movimento di relazioni, che si fonda sulla relazionalità essenziale a ogni idea. C’è dunque enorme tensione tra le idee. Ma su questo occorre prima chiarire un punto.
La dialogicità intrinseca all’Essere (cosmos delle idee) si compie nella potenza del Bene rivolta all’uomo. Questo significa che Platone istituisce un sistema “etico-ontologico”, cioè fonda per la prima volta un’etica ontologica e, socraticamente, epistemologica (“virtù è sapere”). Se il Bene è l’arché delle idee, al cuore del sistema c’è l’idea di giustizia. Per Platone quello che è veramente in gioco è il mondo delle azioni umane. Egli non ha interesse per una scienza naturalistica o cosmologica, cioè di tipo descrittivo (a questo soccorrono i miti!), ma per la scienza dell’agire, il cuore della realtà per Platone è dato dall’agire: più precisamente, l’agire secondo giustizia. Ciò significa che, da un lato, giustizia è l’agire secondo verità, dall’altro che il pensare è anche un agire, e che l’armonia dei significati è un intreccio di vero/falso, corrispondenti a giusto/sbagliato o meglio a buono/non buono (che a sua volta corrisponde alla coppia parmenidea reale/irreale).
In altre parole, l’armonia eterna è una mappa da seguire, che indica le strade da percorrere e i sensi vietati per raggiungere la realtà, per non intrigarsi nella via dell’assenza e del dolore. L’armonia dei significati non è quindi un semplice catalogo di idee o nozioni stabili cui rapportare le cose di quaggiù. Essa è piuttosto un movimento eterno ben descritto nel Fedro come movimento dialettico di diairesis/synagogé e nel Sofista come dialettica della dicotomia. L’armonia eterna dei significati è perciò una mente nell’atto di pensare (eterna mente nell’eterno atto di pensare), che diviene un modello del nostro pensare: anzi più che un modello, la fonte e insieme la via e la mèta.
Questo è il significato dell’arte dialettica concepita da Platone. Alla dialettica delle idee deve corrispondere la dialettica del nostro pensiero. Questo è davvero il più grande sforzo che Platone potesse compiere per portare la verità nella misura della mente pensante dell’uomo, facendola scendere quaggiù. E’ questo il senso del Bene: l’Essere espone l’uomo ma lo protegge, lo salva (a differenza dei presocratici e dei neo-gnostici).
Tanto più che Platone pone al vertice dell’armonia delle idee (che qui chiamo significati, per maggior chiarezza) i cinque generi supremi, essere, moto, quiete, identico, altro. Mi sono spesso chiesto quale sia l’intento di Platone, e ora penso che in questo modo egli abbia davvero attribuito all’armonia delle idee il carattere del pensare (non solo del pensato, cioè della trama statica). Se tutte le idee sono universali, perché rappresentano il significato anticipante/rivelatore di ogni ente fenomenico e perciò transeunte, instabile di questo mondo, i cinque generi non corrispondono a cose o ad azioni umane ma alla natura del pensare: differenziare e unire, includere ed escludere, cioè predicare. Il nucleo del pensiero è il processo per cui un soggetto è incluso (oppure non è incluso) in un predicato: è questo il giudizio. Pensare è giudicare. Il cosmos dei significati è un infinito giudicare, infinita azione di giudicare.
Se il centro è etico e corrisponde alla giustizia, allora l’uomo nel suo rapporto essenziale, strutturale diremmo con la verità (che lo fa pensare, domandare, giudicare), si misura con il proprio destino eterno. Se il rapporto con la verità gli è intrinseco, allora la verità è per lui una vera conquista ed è in gioco per lui l’eterno. Questo apre la questione così profondamente “platonica” della bellezza. La bellezza tra tutte le idee (che sono invisibili, sono “alle spalle” dell’uomo) ha il destino di “apparire”, di potergli stare di fronte. La dialettica dell’amore raccontata nel Convivio chiama chiaramente in causa l’intera dialettica delle idee. Come può l’uomo riconoscere il vero/falso se affonda nel mondo di quaggiù, se cioè l’armonia in sé è inaccessibile e la stessa divisione dicotomica si direbbe piuttosto che postuli quello che dovrebbe trovare al termine del viaggio? (critica di Aristotele nelle Categorie).
Ecco allora il senso della bellezza e del suo apparire.
Essa è l’angelo visibile della verità, perché nel suo rivelarsi agli occhi e come eros, non limita la sua potenza di attrazione ai corpi belli, ma rende sensibili a un bello incorporeo (anime più che i corpi, leggi e istituzioni, filosofia) in una scala ascendente determinata dall’insoddisfazione perenne e dal desiderio spinto sempre più in alto, fino a varcare la soglia dell’ineffabile bellezza, cioè l’idea stessa. Per capirci meglio, la bellezza anche nelle sue manifestazioni più grossolane è un riflesso dell’eterno, o se vogliamo una rivelazione del nostro più profondo desiderio di eterno. Infatti per Platone l’eterno è in noi come desiderio perenne, per via della nostra (dimenticata) origine. E per Platone desiderio (eros) è la tensione infinita tra noi e l’eterno, la nostra stessa origine che ci chiama.
m.c.