I.P.S.E.G. | Istituto Piemontese di Studi Economici e Giuridici
Via Bertola, 2 - 10121 Torino
Il Tempo

Il Tempo

Dicembre 2002 – Numero 81

Se facciamo una riflessione semplice ci si avvede che la concezione del tempo si modifica profondamente a seconda del grado o livello di realtà a cui è riferito. Che l’esperienza di realtà possa risultare distinta in diversi gradi o livelli è naturale, se si pensa alla differenza che esiste tra l’osservazione del traffico della strada, il perdurare di un nostro stato d’animo qualsiasi, la concentrazione su un problema astratto o sulle pagine di un romanzo.

Il tempo della fisica consiste nel movimento dei corpi, secondo il punto di vista delle forze, delle masse, delle direzioni. Con lo spazio, esso è una funzione del concetto di velocità: il risultato di un’analisi, di una scomposizione. Come lo spazio, il tempo fisico è qualcosa di omogeneo che rende possibile misurare qualsiasi movimento di tipo meccanico. Tale omogeneità è rappresentata dalla successione dei numeri.  Ma il movimento è “di tipo meccanico”, proprio perché preliminarmente viene misurato sull’omogeneità della successione numerica. Il tempo di un’auto in corsa è costituito da istanti di per sé tutti uguali, ciascuno dei quali è immobile. Ciò che conta è la distanza, poniamo, tra due punti del suo percorso. Infatti esso misura una relazione tra punti. Ma la cosa che più interessa è questa: si tratta sempre di un tempo puramente rappresentato, oggettivato, cioè visto come se noi fossimo spettatori esterni. E’ un tempo che esiste solo “di fuori”, nella “descrizione” dei fenomeni, benché sia rigorosamente inquadrato nella nostra razionalità matematica. Del resto alla base della concezione meccanica del tempo c’è il mondo della pura materia, dell’oggetto inanimato. Se noi siamo seduti su un’automobile proiettata sull’autostrada a 150 Km l’ora, la velocità dell’automobile non ha assolutamente nulla a che fare con il tempo che scorre in noi.

Il tempo della psicologia infatti è svincolato dal movimento esteriore dei corpi, e consiste nel passato e futuro della nostra esperienza. Nel tempo della fisica non c’è passato e futuro e non c’è esperienza, ma solo la ripetizione sempre uguale del presente immobile. Anche il corpo d’un uomo su una macchina rientra nella descrizione della velocità. Ma questo non ha senso per il tempo della persona seduta, se quest’ultima è, poniamo, in uno stato d’attesa. Prima di tutto, questo tempo è davvero un continuo. Inoltre la persona potrà bensì considerare il tempo del suo orologio constatando che restano solo 4 minuti alla scadenza dell’ora dell’appuntamento importante, oppure mancano ancora ben 4 minuti per giungere alla solita destinazione. Dunque le circostanze renderanno lenta oppure veloce la sua attesa. Tutti sappiamo bene che un’esperienza attraente, a parità di durata d’orologio, è molto più breve di un’esperienza spiacevole o dolorosa. Certo, se prendiamo come unità di misura esclusivamente le lancette del nostro orologio, la dimensione psicologica del tempo apparirà facilmente arbitraria (e l’altra “esatta”). Ma chi può negare la realtà del sentimento di durata temporale che è in noi?

Si potrebbe pensare che il tempo astronomico sia prossimo al tempo fisico. Tuttavia la misura e l’evidenza del movimento astronomico consistono piuttosto in un’alternanza ciclica (giorno e notte, mesi, stagioni ..), che in una uniforme successione di unità. Inoltre nel circolo perenne del calendario il passato e il futuro hanno un significato preciso, benché in pratica tale significato coincida con la relazione delle nostre esperienze con gli eventi naturali, astrali e biologici, che hanno una continua ripetizione. Non c’è dubbio che la circolarità rappresenti l’aspetto della stabilità (di ciò che muta), e si ponga nei confronti della vita umana in termini di spiritualità: pensiamo al comune calendario fitto di scadenze o alle date che fanno parte dei nostri ricordi personali e famigliari o anche al nostro modo di sentire la natura in consonanza col cambiamento delle stagioni.

Il tempo che è proprio dello spirito umano invece implica il senso di un inizio e di una fine e perciò una progressione significativa di ordine morale. E’ dunque l’esperienza di un livello temporale, e dunque di realtà, esclusivamente umano, che segna il senso di un’esistenza attraverso le azioni, le decisioni e i dubbi della mente. Chi non ricorda l’angosciata domanda dell’Innominato nella pagina manzoniana: “Invecchiare, morire: e poi?”. Il tempo spirituale non può essere confuso col tempo psicologico: esso appartiene essenzialmente al pensare, e apre il problema dell’eternità in rapporto con la nostra finitezza.

Vi è un punto interessante da considerare. Tutti abbiamo la percezione del prima e del poi come limite delle nostre stesse azioni, poiché nonostante l’urgere della volontà noi possiamo compiere solamente un’azione per volta. Questa condizione diviene per noi una necessità, perché siamo costretti ad agire secondo una successione che ci limita potentemente. Un caso del genere è per esempio il nostro modo di parlare.

L’ordine delle frasi, delle parole, delle sillabe è dato necessariamente dalla successione e la finitezza del nostro essere è resa evidente proprio dal nostro doverci limitare a un suono dopo l’altro. Però il nostro pensiero no. Se dico la parola “filosofo” o la frase “i filosofi non badano troppo al denaro” il mio pensiero precede la parola e l’intera frase. La sua struttura, per così dire, possiede una simultaneità spaziale benché non sia certo priva anche della dimensione temporale. In altre parole il nostro pensiero, benché non sia già bell’e compiuto, procede secondo delle unità complesse. Ciò che è simultaneo nel pensiero diviene successivo nell’espressione orale (e scritta). Perché?

Qui si pone il problema della differenza tra l’ambito propriamente corporeo, che è proprio dell’espressione che procede verso l’esteriorità, e l’ambito spirituale che al contrario è un raccogliersi, e in definitiva si configura come unità. Certamente tra pensiero ed espressione verbale vi è un transito. Tale transito non può ridursi al rapporto tra ideazione ed esecuzione. Dal pensiero all’espressione verbale il transito è il passaggio tra due livelli di realtà. L’espressione “livelli” naturalmente possiede un’ambiguità metaforica, e ci porta entro uno degli scenari che hanno segnato il cammino della filosofia. Basti qui solo richiamare l’oscillazione tra dualismo e monismo, da Platone a Plotino, da Cartesio a Leibniz, da Bergson a Gentile, a Heidegger.

Ma è notevole osservare che il livello spirituale, che è quello del puro pensiero, possiede una struttura di tipo spaziale che potremmo definire idea o forma. Ciò significa che nasce come compresenza degli elementi che concorrono a costituire una certa unità di senso. Il nostro pensiero è, insomma, un atto presente, tutto presente nella sua complessità. Per questo il pensiero ha duplice valenza atemporale e temporale. Si può congetturare che il suo movimento consista in una metamorfosi creativa: forme unitarie in incessante metamorfosi.

Il livello spirituale della realtà, che corrisponde all’attività del pensiero, culminerebbe dunque in una eterna, infinita unità, la cui scaturigine sembra però che si sottragga a qualsiasi “oggettivazione”. Ma ogni pensiero che nasce in noi (come puro atto cosciente, si direbbe, anzi di autocoscienza) ha la forma di una sintesi. Qui si apre il capitolo della memoria. Prendiamo per esempio un verso poetico: “Né più mai toccherò le sacre sponde”. Se l’ho in mente e provo a ripeterlo, la successione delle parole viene fatta dal movimento della voce, che esprime quello che ho in mente. Nel movimento la successione è un’attività sintetica: la disposizione temporale è costituita da un elemento per volta, ognuno lascia il posto a quello che gli deve succedere. Però in ogni elemento “si accumula” un senso globale, che accomuna memoria e attesa, e fa intendere che in realtà vi è già una sintesi, che si autoanalizza. L’intero si realizza alla fine, dove cessa il verso: ma compare già fin dall’inizio.

L’intero è memoria, ma questa è carica di tensione, proprio perché la sua natura di memoria è quella di sempre ricominciare. Essa non è un deposito né un archivio, ma una coazione: una tensione emotiva la cui direzione è quella di ripetere se stessa circolarmente. Essa non è semplicemente presente come un sacco in cui si può rovistare: essa vuole se stessa, e il suo volere se stessa significa riaprire il circolo, ripeterlo, ricominciare il processo. Ma il processo è sempre raccolto nell’istante, che è come un punto inesteso fra il sottosuolo e la sua negazione. Certo ogni atto della coscienza viene dalla memoria (come faremmo se no a riconoscere anche una sola sillaba?). Ma è sempre, sostanzialmente, memoria che si nega, che si libera nel pensiero cosciente.

E veniamo finalmente alla conclusione. Si può dire che il dominio del tempo si instauri e cresca man mano che abbandoniamo il piano puramente spirituale per scendere a quello aderente alle macchine o ai corpi fisici. Questo vuol dire che il tempo rappresenta soprattutto il mondo artificiale, oppure quello dei corpi fisici, dove in teoria non c’è più l’uomo. Nel brevissimo dialogo tra un Folletto e uno Gnomo, all’inizio delle Operette morali, Leopardi rappresenta potentemente cosa sarebbe un mondo senza l’uomo: “Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla; e i fiumi non sono stanchi di correre”.

Tuttavia, non possiamo assolutamente dimenticare che anche l’orizzonte delle macchine, che è ormai il nostro scenario abituale, o quello dei corpi fisici, appartengono al paesaggio spirituale dell’uomo. Anzi. Oggi la nostra attività spirituale riconosce se stessa nelle tecnologie, nel farle e nell’utilizzarle. Però in questo modo abbiamo esteso il potere del tempo su di noi e forse questo ci estrania da noi stessi, come in un volontario e irreversibile esilio: quanto più la nostra mente si oggettiva nelle infinite espressioni della tecnologia, tanto più si immerge nel dominio temporale esteriore. Proprio quando la velocità della luce diviene la misura di fenomeni artificiali come, per es., una reazione a catena, siamo sotto il potere schiacciante del tempo. Ma il dominio temporale è, pure, una modalità della nostra mente. Di qui discende la paradossalità della nostra condizione odierna.

All’origine del tempo vi può essere solo e sempre il soggetto spirituale e la sua attività mentale, che calcola e misura calandosi nel dominio deterministico delle macchine, che sente e patisce nell’inquieto e mutevole mondo delle emozioni, ma che pensando scopre l’eternità che lo muove e non lo lascia riposare mai, mai crogiolarsi nel porcile di Circe nemmeno quando l’incantesimo della maga gli abbia offuscato la vista scambiando il suo potere per il più bello dei mondi.

                                                               m.c.

Comments are closed.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi