I.P.S.E.G. | Istituto Piemontese di Studi Economici e Giuridici
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Negazione e Memoria

Negazione e Memoria

Numero 88   –  Gennaio 2004

La memoria delle vittime della persecuzione che infierì specialmente sulle popolazioni ebraiche dell’Europa centro-orientale, ai margini della Seconda guerra mondiale, assume da qualche tempo l’evidenza di un rituale pseudoreligioso. Questa espressione non vuole avere alcun significato spregiativo, ma indicare semplicemente che aspetti fondamentali della ritualità sacrale vengono utilizzati a significare altre cose, attraverso la rappresentazione del lutto collettivo. E poiché quegli aspetti si riferiscono ai riti di morte, diventa evidente il significato che la teatralità delle commemorazioni e delle rappresentazioni della sofferenza degli Ebrei nel corso di quella guerra viene oggi ad assumere: il mondo civile ha vinto, la civiltà ha trionfato sulla tenebra. Si può dire allora che le attuali implicazioni del concetto di “occidente”, con tutto ciò che esso comporta anche nel vivere quotidiano, ne ricevano una sorta di giustificazione e di rassicurante conferma.

 

Non occorre pensare solo e immediatamente alla concezione di un ordine mondiale americano (anche se questo comunque si alimenta proprio nella ragione storica della vittoria sul nazismo), ma anche semplicemente al quadro comune dell’esistenza odierna quotidiana di milioni di individui (di qua e di là dell’oceano). Ognuno si riappropria, in forma di rappresentazione, della propria appartenenza alla vita, ricevendo una conferma dei propri significati abituali, anche se completamente pervasi di nichilismo: la fenomenologia consumista del mondo attuale assume l’apparenza di una “consacrazione” attraverso il cupo quadro simboleggiato da Auschwitz.

 

E’ evidente perciò che, se queste osservazioni sono esatte, le cerimonie rappresentative dell’Olocausto nella sua unicità sostituiscono (la mancanza di) una rappresentazione religiosa positiva del mondo. In tal senso il termine olocausto, anche se appare abbastanza tardi nell’uso mediatico che se ne fa, serve molto bene a suggerire l’idea di un sacrificio. L’espressione “olocausto” (nell’uso attuale, si capisce) appartiene alle rappresentazioni della fine della Prima guerra mondiale, quando si instaurò un processo di “eroicizzazione” e di riconoscimento del “martirio” dei molti milioni di caduti in combattimento, allo scopo di “consacrare” le unità nazionali dei popoli oppure le rivoluzioni che ne erano seguìte. L’idea che il sacrificio dei soldati serva a fondare la vita dei sopravvissuti non è certo nuova. In mancanza di una guerra oggi ci si appella a questo unico olocausto, in un certo senso il solo ammissibile. Infatti non c’è un “olocausto” di caduti della Seconda guerra mondiale, o se c’è stato qualcosa del genere (i “martiri della libertà” da noi presero il posto dei soldati caduti in guerra) oggi è roba dimenticata.

 

Naturalmente una differenza profonda esiste, legata al fatto che gli Ebrei non si sono “immolati” per una santa causa, ma sono stati semplicemente delle “vittime”. Tuttavia proprio questa differenza rende possibile il riferimento all’attuale concezione della società occidentale (democratica, consumista, opulenta o permissiva o come altrimenti la si voglia significare). Infatti l’olocausto legato alle carneficine della Prima guerra mondiale promuoveva una memoria di tipo eroico, derivante proprio dal riconoscimento che quelle vittime si erano “immolate”. Era dunque chiaramente una trascrizione del “martirio” cristiano e anche l’iconologia diffusa in quegli anni (ma occorre risalire fino alla rivoluzione francese) s’ispirava alla tradizione rappresentativa del cristianesimo. L’olocausto ebraico invece promuove una memoria, per così dire, disperata perché puramente legata alla disumanità del fatto, e perciò propria di una società di tipo “nichilista”. Non dimentichiamo d’altra parte che la memoria non è il passato, ma il presente. Il fatto poi che si consideri l’essenza dell’Ebraismo non come quella di un singolo popolo, ma allargata a macchia per tutto l’occidente, rende direttamente l’idea di una comunità in certo senso “mondiale” e globalizzata.

 

Tuttavia è proprio quel carattere di unicità a sollevare un problema notevole. Esso è stato giustificato in diversi modi: dal numero elevatissimo di vittime, superiore a qualsiasi altro conteggio analogo (se si tratti di conteggi particolari), all’assenza di qualunque spiegazione razionale della persecuzione. Ma vi figura anche, peraltro, una concezione messianica del popolo ebreo: sintetizzata dalla domanda “dov’era Dio ad Auschwitz?” (cioè, perché era assente il Dio del popolo da lui eletto?). In tutte le risposte c’è la pretesa di imporre la memoria di Auschwitz come un fatto esclusivo, monopolizzando l’intera serie delle nostre fatiscenti ricorrenze civili. In Italia è già praticamente così. Feste civili come il primo maggio, il venticinque aprile, il due giugno (per non parlare di quelle “fasciste”, come l’undici febbraio o il ventiquattro maggio) sono state riassorbite dalla liturgia vacanziera del consumismo: l’unica data/evento è rimasta il cosiddetto “giorno della memoria”.

 

A questo punto diventa inevitabile fare delle domande. La memoria storica del Novecento non è costituita solo da Auschwitz, e ci sono dei profondi “pozzi neri” che si stendono muti nel sottosuolo della terra. Proprio il carattere di esclusività della memoria ebraica sottintende una questione di questo genere, perché impone o ha come effetto un silenzio che alla lunga è colpevole di condiscendenza. Tuttavia c’è un serio ostacolo perché si possa riparare a questa ingiustizia. L’ostacolo è determinato dalla natura complice (subdolamente, implicitamente complice) che fa coincidere, come dicevo sopra, la memoria luttuosa di Auschwitz con il modo di vivere (“way of life”) di milioni di individui “occidentali” di oggi; e altresì con la concezione politica “americana” dell’ordine del mondo. So di non far piacere a molti osservando semplicemente che Auschwitz giustifica la civiltà dei supermercati: so che molti individui percepiscono in modo onesto e profondo il ricordo, ma qui sto parlando in fin dei conti solo dell’immaginario collettivo.

 

Ma dovrebbe essere altrettanto familiare a ognuno il fatto che nel XX secolo alcune diecine di milioni di uomini, per lo più cristiani ortodossi, sono stati annientati nei Gulag comunisti, a partire dalla dittatura di Lenin. Le opere di Solzenitzin, di Salamov, di Grossmann e di altri testimoni non hanno conosciuto la fortuna delle vendite dei libri di Anna Frank o di Primo Levi. Che io sappia nessuno a Hollywood ha mai provato interesse a rappresentare la vita e la morte nel Gulag sovietico, mentre si contano ormai a centinaia i film sulla persecuzione nazista. Eppure vi è una cosa certa dopo che è stata chiarita in centinaia di pagine da E.Nolte (e per questo lo storico tedesco ha subìto a sua volta una persecuzione in tutti i sensi), e cioè che il sistema concentrazionario nazista venne “generato” dal sistema concentrazionario sovietico. Questa non è un’attenuante per gli hitleriani ma è stato deciso che lo poteva essere. E se non poteva più essere nascosto (come tutti avevano sempre fatto) che i Gulag comunisti funzionavano con almeno venti anni di anticipo rispetto ai Lager nazisti, ciò non doveva venire affermato come un rapporto genetico. Infine quando è apparsa in Italia la traduzione del “Libro nero del comunismo” non sono stati solo gli ex-comunisti a mettere in campo tutte le riserve possibili.

 

E c’è da chiedersi perché il più grande sterminio istantaneo mai attuato nei confronti di una popolazione inerme (in tutta la storia umana), faccia parte di una blanda rimozione collettiva anziché di un ipotetico Guinness del demoniaco, detenuto da qualche decina di fisici americani (per lo più ebrei di origine europea) e dai loro governanti al tempo della Seconda guerra mondiale. A Hiroshima e a Nagasaki solo un freddo calcolo concepito per anni al di là dell’oceano giunse ad annientare quelle popolazioni in pochi secondi. Come si sa le giustificazioni di questo abominio vengono ripetute anch’esse come un rituale, assecondate dal comportamento generale di tutti quelli che sono disposti a credere a ciò che quieta le loro coscienze. E’ sintomatico pensare che queste stesse coscienze oggi sentono la loro indignazione per Auschwitz. E’ doloroso scrivere queste cose, ma dopo tutto l’unico compito che si possa riconoscere al pensiero è quello di affrontare il dolore.

 

E tuttavia sulla questione del razzismo in America ci sarebbe materia per celebrare molto più di una memoria collettiva. C’è da domandarsi seriamente in che modo lo sterminio dei pellerossa e la discriminazione dei neri facciano parte della nostra memoria collettiva. Ma la montatura del “pericolo giallo” e le leggi razziali degli anni Venti sollevano forse qualche dubbio su ciò a cui altri popoli di conseguenza erano destinati? Eppure a rileggere i documenti e i toni usati dai sostenitori dell’orgoglio anglo-sassone in America, dalla fine della Guerra civile in poi, non sembra (preso atto delle distanze contestuali) che vi fosse differenza dai toni usati da Hitler nei confronti del “pericolo ebraico”. Adesso costituisce forse “scandalo” fare osservazioni come queste. Si potrà naturalmente obiettare che il nazismo ha fatto molte più vittime, o che le vittime del nazismo erano più innocenti di quelle di Hiroshima.

 

Vorrei tuttavia osservare che se si fa ricorso all’argomento della contabilità, il primato lo detiene senza dubbio la storia dei Gulag, che supera le vittime dei Lager di alcune diecine di milioni di lunghezze. E’ penoso tutto ciò, ma sembra che davvero il numero delle vittime faccia sentire il suo peso decisivo. Se questo è vero, basta a mettere in discussione l’unicità della persecuzione nazista degli Ebrei. Inoltre le vittime dei Gulag comunisti in generale appartenevano alle stesse nazioni cui appartenevano quelle dei Lager nazisti: russi, ucraini, polacchi, ungheresi, ed erano cristiani, ebrei e altro ancora. Se una differenza c’è ancora, essa rende ancora più sconvolgente la realtà dei Gulag, perché essi furono in funzione anche dopo la guerra civile in Russia e anche prima della guerra mondiale (cioè in anni di “pace”), mentre i lager nazisti furono attivi, come si sa, a partire dal 1941/42.

D’altra parte non si vuole nemmeno sentir parlare (ad eccezione di una storiografia pressoché semiclandestina) delle tragedie della popolazione tedesca durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Eppure anche qui le cifre toccano il numero di milioni. E’ divenuto ovvio, a questo riguardo, sentir ripetere che la storia la scrivono sempre i vincitori. Però a questo punto del discorso, per non finire appunto nel quadro di certe ovvietà, vengo davvero al punto che conta di più.

Lo sterminio degli Ebrei dell’Europa orientale, avvenuto nel corso del Secondo conflitto mondiale, e più precisamente fra il 1942 e il 1944, può essere considerato come un capitolo unico, sospeso in uno scontro decisivo, anche se non definitivo, fra il Bene e il Male. In questo senso lo standard di vita definito comunemente “occidentale” collima perfettamente con l’epica del “Signore degli Anelli” e l’antisemitismo diventa il filo rosso della storia dopo Cristo. Oppure, ben più realisticamente (ma ci vuole del coraggio a sostenerlo!) esso costituisce solo un capitolo, una manifestazione della vicenda la cui essenza si definisce tanto ad Auschwitz quanto nei Gulag siberiani o cinesi, tanto a Hiroshima quanto a Dresda. La vicenda è legata al corso della storia moderna in Europa e in America e include fenomeni come l’onnipotenza dello Stato, il mito della collettività, il potere “chirurgico” della fisica, la concentrazione tecnica e sociale, ecc..

In questo senso parlano filosofi e scrittori che qui è inutile citare ma che hanno pensato chiaramente che il cosiddetto “occidente”, o la razza nordica (non solo tedesca, ma anche quella anglo-sassone!), siano entrati in quell’epoca pericolosa della storia in cui nessun significato è più capace di reggere il mondo. Forse si obietterà che questa è solo filosofia e che gli uomini possono vivere in pace anche senza aver nulla cui credere o in cui riconoscersi. Anzi, proprio l’odierno individualismo  sembra accreditare  l’ipotesi di un

mondo senza più guerre, fatta salva la necessaria difesa dal terrorismo. Tuttavia è un fatto innegabile che la crescente violenza sterminatrice di noi “occidentali” sia legata al trionfo delle tecnologie e della società altamente organizzata. In tal senso la bomba di Hiroshima è un simbolo del XX secolo assai più significativo di Auschwitz, perché ha continuato in modo spaventoso a minacciare anche nei decenni successivi alla guerra. Oggi un miliardo di Hiroshima sono nelle mani di pochissimi.

La tesi dell’unicità di Auschwitz rende impossibile capire il senso della storia moderna, e nel contempo costituisce di fatto l’ultima delle ideologie. Ma se l’essenziale non si trova ad Auschwitz più che nello sterminio della popolazione giapponese o tedesca, che nei Gulag o nel genocidio dei vandeani, sarebbe meglio considerare che un solo fenomeno separato finisce col nascondere ciò che dovrebbe invece rivelare: e cioè, che a cominciare dalla Rivoluzione francese un partito, una volta assunto il potere dello Stato, immagina un nemico “assoluto”, interno o esterno o tutte e due le cose insieme, rappresentandoselo sempre in termini di reciproco “terrore”, perché lo presenta come una minaccia invisibile, diffusa e che agisce anche nella forma del “complotto”: nemico intorno al quale si “mobilita” l’opinione pubblica, e che alla fine verrà “annientato”.

 

Chi avesse l’umiltà di riconoscere questo trarrebbe davvero profitto, come si usa dire, dalla lezione di Auschwitz.

Altrimenti si rimuove l’essenziale e si lascia che i nemici del nazismo continuino credersi i salvatori del mondo, a dispetto del fatto che nella seconda  metà  del XX secolo  il numero di vittime sia stato persino più alto che nella prima metà, almeno alla luce delle guerre mondiali. Si continua a credere che la Prima guerra mondiale sia stato un capitolo decisivo soltanto per dei pazzi come Mussolini e Hitler, anziché vedervi, come occorrerebbe, la genesi profonda e tremenda di tutto il secolo. Si continua a mantenere il mito del carattere “diverso” dello sterminio ebraico rispetto a tutti gli altri, prendendo per buone delle affermazioni di cui è lecito almeno dubitare, come quella della incomprensibilità della persecuzione hitleriana (certo che lo era, moralmente; ma come lo sono state tutte le guerre  contro un nemico assoluto a partire dalla Rivoluzione francese; anche Hitler avanzava eccome un mucchio di ragioni, per quanto aberranti! Basterebbe aprire, ma chi lo fa poi?, le pagine che scrisse prima di andare al potere). Sì, bisognerebbe avere il coraggio di riconoscere che vi è una negazione che non riguarda la storia di Auschwitz, ma .. altro: altro ancora. Il rifiuto a confrontarsi con questo altro, comune alla coscienza contemporanea, richiama l’irrazionalità storica del nichilismo.

m.c.

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