I.P.S.E.G. | Istituto Piemontese di Studi Economici e Giuridici
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N.9 – 25 aprile 2004

N.9 – 25 aprile 2004

La Festa della Liberazione, per tanto tempo utilizzata in maniera strumentale contro avversari vecchi e nuovi, per dividere, irrogare condanne sommarie ed impedire la nascita di un comune sentire, ci consente oggi di notare, dopo tanti anni di monopolio della storiografia di stretto rigore comunista, l’affermarsi di una visione meno condizionata politicamente e più attrezzata scientificamente, che sottolinea da un lato le varie radici culturali della resistenza, in cui i cattolici ed i militari (9436 morti solo a Cefalonia) hanno in realtà contato più dei comunisti, dell’altro la spontaneità idealistica che motivò tanti, in particolare giovani, a militare dalla parte sconfitta.

Per comprendere quel periodo si deve tener presente che i comunisti si muovevano applicando i criteri e le teorie della lotta rivoluzionaria, ben descritta da Giorgio Bocca: “In realtà, e i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E’ una pedagogia impietosa, una lezione feroce. I comunisti la ritengono giustamente necessaria e sono gli unici in grado di impartirla, subito” (Storia dell’Italia partigiana, Mondadori, pag. 146).

Tale strategia rivoluzionaria, tra l’altro, individuava obiettivi tra i più moderati –e spesso i più indifesi- avversari, per scatenare la violenta reazione dei più estremisti.

E’ stato il caso dell’assassinio di Giovanni Gentile, indiscusso principe della filosofia italiana, in relazione al quale l’allora fascista Giovanni Spadolini scrisse su Italia e Civiltà : “Molti antifascisti leali, hanno biasimato il delitto disonorante, rifiutando ogni responsabilità e complicità, anche morale, con i suoi mandanti ed esecutori. Segno che, come abbiamo sempre sostenuto, il popolo italiano non si divide in “fascisti” e “antifascisti” ma in “onesti” e “disonesti” e soprattutto in amici e nemici della patria”.

Entrambe le parti in lotta, reciprocamente sentendosi tradite, si macchiarono di efferatezze, ma il punto di incontro, la pacificazione definitiva – sempre ostacolata dalla storiografia comunista funzionale alla prosecuzione della lotta rivoluzionaria, tanto da parlare di resistenza tradita negli anni ’70 ammiccando ai movimenti estremistici di quegli anni che poi svilupparono gravi fatti terroristici – è ora possibile, se solo si consideri che più in alto di tutto, gli uni e gli altri, ponevano l’Italia: una loro propria idea dell’Italia, vicendevolmente opposta, nelle circostanze, acerrimamente nemica, in quel contesto, ma nutrita nell’uno e nell’altro caso di amore per l’Italia stessa.

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