I.P.S.E.G. | Istituto Piemontese di Studi Economici e Giuridici
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Dante Nostro

Dante Nostro

Novembre 2002 – Numero 80

Alla base della Commedia c’è la vicenda del mutamento di un uomo in carne e ossa e dunque ben vivo, che si svolge nel corso della sua traversata del regno dei morti, fino all’istante in cui giunge al cospetto immediato di Cristo. Ma il senso di tutta la Commedia, questo non lo si dovrebbe mai lasciar passare quasi inosservato, è che Dante in vita, attraverso un misterioso itinerario, arriva alla presenza di Dio nella persona di Cristo. E’ vero però che in questo attraversamento spaziale la mente di Dante si trasforma. La sua metànoia è esattamente l’effetto dell’esperienza del suo passare attraverso il triplice dominio dei morti. Perciò il suo viaggio nell’oltretomba presuppone i precedenti mitologico-letterari dei percorsi iniziatici negli Inferi.

 

E’ dunque bene ricordare che Dante fa poesia all’interno della poesia antica. Questo non può essere inteso, perciò, come un semplice problema di fonti. La poesia rigenera e trasforma la (passata) poesia, riattualizzandone l’avvenimento. E’ perciò come un incastro di citazioni. L’espressione avvenimento, da me usata, vuole indicare anche il senso drammatico. Infatti è giusto sostenere che la Commedia dovrebbe essere letta come un testo drammatico, non lirico. L’equivoco (romantico) di una lettura prevalentemente lirica, e perciò anche selettiva, ha fatto molti danni, disabituando i lettori alla comprensione del movimento interno del poema. Inoltre, così facendo, si è depotenziato il valore della parodia, che porta in un presente atemporale la poesia di ogni tempo, facendo contemporanei i testi millenari in una originale giustapposizione. Si faccia attenzione. Il carattere drammatico della Commedia è avvalorato dalla continua, dominante tecnica del dialogo, che rappresenta la vera spina dorsale del poema.

 

Questo carattere drammatico è comune con quello dei poemi antichi. E come quelli, la Commedia non è né qualcosa di scopertamente finto, immaginato, né qualcosa di davvero avvenuto come se fosse un resoconto storico abbellito. La verità dell’Iliade consiste nel suo accadere nella mente del lettore. Analogamente la Commedia, con la sua successione di paesaggi, di incontri, di dialoghi concitati o pacati, non è una rêverie né un centone (pseudo)storico. E’ un avvenimento poetico che contiene l’intensità ineguagliabile di un’esperienza umana possibile solo come poesia. Qui la poesia diventa, si capisce, una questione seria, perché si fa molto prossima all’esperienza mistico-religiosa, con cui tuttavia non si deve confondere. Inoltre è un grave errore intendere o far percorrere la Commedia come se consistesse in una serie di frammenti staccati fra loro (magari con la mente rivolta ai nostri lirici del 900!), poiché essa è una comedìa, un continuum narrativo e drammatico appoggiato sul dialogo. Forse soltanto negli ultimi canti del Paradiso, in un crescendo lento e maestoso, emerge un’intonazione epico-elegiaca: allorché il solitario Cavaliere degli Abissi si avvicina al Volto assoluto attraverso quelli muliebri dell’Amata (e il poema si va sempre più concentrando in una fuga musicale di volti e di sguardi), fino a confondersi lui stesso con gli infiniti sguardi della Rosa (la Rosa è in effetti un immenso sguardo collettivo) e perdersi nel Piacere assoluto, l’estasi del contatto visivo con la fonte stessa della bellezza e dell’amore, Cristo il Verbo creatore.

 

Non si deve equivocare sulle quaestiones che si fanno sempre più frequenti entro i dialoghi dai gironi infernali alle cornici del Purgatorio e da queste ai cieli del Paradiso. Esse appartengono, credo, al genere delle quodlibetales, dispute in cui i professori offrivano a proprio rischio e pericolo di trattare un argomento de quodlibet ad voluntatem cuiuslibet, posto da chiunque su qualunque argomento.  Si tratta dunque della parodia di un genere scolastico tendenzialmente drammatico, benché qui i maestri siano anime veggenti ogni vero in Dio, l’allievo sia ben disposto e le questioni poste da lui siano sempre funzionali allo scopo del suo salire oppure mirino a svelare la vera condizione umana.

 

Dante nella Commedia inventa la contemporaneità di tutte le epoche, la mescolanza delle più differenti condizioni umane, temporali e spaziali. Il tempo reale, o supposto come reale, con la distanza e l’oblio dei secoli, viene sostituito da un presente poetico. Perciò il viaggio è un itinerario nei millenni riassunti in un cammino spaziale. Lo spazio è rappresentato come un’antiterra, che si riferisce alla terra, o al mondo, come alle sue viscere o alle sue altitudini inaccessibili. Questa ricomposizione metafisica dell’umanità, questa contemporaneità del passato e del presente o se vogliamo di tutto il passato nel presente (presente della percezione poetica), è come tutti sanno un’opera di architettura dai significati mistici, ma anche etici e politici, il cui asse di riferimento è la crudeltà, cioè la tragedia, del suo esilio ventennale.

 

L’ordine, la disposizione di quest’architettura è centrata in due opposti tipi umani: quello che in definitiva corrisponde all’essenza genuina della poesia ed è caratterizzato dalla sincerità dell’agire, al cui opposto c’è invece l’agire obliquo (noi diremmo “con secondi fini”). E non c’è dubbio che oggi  possiamo intendere questo secondo come un agire per il valore economico in quanto tale. Perciò nel primo il valore poetico della poesia coincide con il valore poetico dell’azione (che viene raccontata, narrata).

E’ vero, questa tipologia umana si incastra in un’altra architettura corrispondente all’ordine etico della dottrina cattolico-tomista. Si incastra, ma non coincide. Ne risulta una fortissima tensione, poiché questo secondo edificio non deriva dall’uomo ma dalla volontà divina ed è una legge, una vera e propria legge. Tuttavia la stessa volontà divina, poi, ha notevoli tratti di imperscrutabilità che sembrano ridimensionare quella stessa legge. Solo nel Paradiso la tensione tra i due elementi, quello degli opposti tipi umani e quello della giustizia divina, viene meno ed è sostituita da un altro tono epico,  quello celebrativo, perché lì le storie personali coincidono con il disegno di Dio e i personaggi sono eroi dell’eterno, della guerra della città celeste contro quella huius mundi.

 

La personalità dei personaggi che Dante incontra nella Commedia consiste, in pratica, nella loro memoria. Sono personaggi che “ricordano”, ma questo loro ricordare è, nella narrazione drammatica, fissato per sempre perché non c’è più sviluppo possibile. In un certo senso nella Commedia non accade più niente, non c’è più niente di nuovo e questa faccenda rappresenta un elemento di tensione fra l’uomo vivo che si trova nel tempo e va scoprendo il luogo dell’eterno giudizio, e l’eterno stesso, la sua immobilità inesorabile, la quale è in parte un tetro penitenziario, in parte una città in festa, in cui domina una concezione giudiziaria senza appello. Potremmo dire: l'”antefatto” è Dio (Cristo) giudice, il dramma è già accaduto e ora la situazione drammatica del testo è, per così dire, “il giorno dopo” (e senza fine).

Il gulag da una parte, la festa dall’altra (e, tra i due, il “correzionale”) sono gli scenari di una condizione che rappresenta opposte possibilità dell’esistenza umana come esperienza estrema: l’abiezione e la gioia. La festa, l’eco delle feste popolari che dovevano svolgersi con grande dovizia di canti e balli, luminosi effetti di fuochi, addobbi variopinti e scene di folla in movimento e quant’altro nelle città e nei villaggi, è la condizione degli abitanti della città celeste, con l’ebbrezza e la libertà di sentirsi parte di una comunità integrale pienamente realizzata. Come nelle feste vere, in cui si è attori e spettatori a un tempo, tutti gli sguardi sono attratti dal centro della festa, una corte splendida che attornia l’ineffabile Imperatore.

 

Ma per quanto riguarda la condizione degli “altri”, cioè dei vinti postumi di quel paradossale conflitto (tra le due “città”) che è la storia e in cui a Dio è riservato il trionfo finale, c’è un punto importante da rilevare. Per capire a fondo quel che accade davvero nella Commedia bisogna tenere a mente che Dante vi rappresenta la propria trasformazione iniziatica. Inferno, Purgatorio e Paradiso sono sue visioni o stati mentali: possibili solo nella stesura poetica, nel testo poetico. Dante non è semplicemente spettatore di immagini differenti e oggettive che si succedono nel corso del suo andare.

 

Voglio dire che Dante nell’Inferno è peccatore. Ciò che vede, sente, prova è sempre ancora nella veste del peccato. La guida di Virgilio gli serve per andare avanti e per essere aiutato a vedere e capire, ma non a capire nello stato di grazia. Dante non è né Sordello né Cacciaguida. Questo spiega le sue forti reazioni emotive, proprie dell’uomo nella condizione del peccato. Nell’Inferno egli non si purga affatto, ma fa l’esperienza comune del peccatore (che lui è) nella pena vissuta dai suoi compagni esemplari. Là egli vive il rischio della dannazione in tutta la sua portata. Naturalmente gli accade qualcosa. Il disgusto per la condizione in cui versano gli ergastolani, l’angoscia, colpiscono proprio il suo (attuale, attualissimo) desiderio di peccare. Non è certo un caso che Virgilio lo raggiunga nella selva oscura sul punto della sua massima disperazione (nel senso etimologico). E’ insomma un’esperienza traumatica quella che Dante fa nell’Inferno. Si leggano certe sue rappresentazioni d’ira, di bassa passionalità, vendicative, oppure patetiche, nostalgiche.

 

Non è un caso, non è proprio un caso che il vero centro drammatico della Commedia, il punto chiave potremmo dire, sia nella conclusione del Purgatorio la confessione di Dante e il suo doppio lavacro, prima nel Letè poi nell’Eunoè. Perciò il protagonista del dramma è prima peccatore coi peccatori (con la sua personalità “storica”, vitale, passionale, eroica). Dante non ha una concezione moralistica del peccato, niente affatto. Come dicevo più sopra, la giustizia di Dio (rappresentata nell’invenzione poetica di Dante) non coincide con la tipologia umana che Dante pone a base della sua ammirazione (Farinata, Ulisse) o pietà (Ugolino, Francesca) o affetto (ser Brunetto). E in definitiva essa non coincide del tutto neanche con quell’ordine etico che pure Dante sostiene e che corrisponde all’antropologia tomista. Si rilegga l’invettiva di Tommaso d’Aquino alla fine del Canto XIII del Paradiso! Ed è per lo stesso motivo, che Dante nel Purgatorio fa l’esperienza dello sperare, dell’amare nella propria pena il riscatto (mentre invece è inferno il rapporto colpa/pena uguale a zero).

 

Quello che sostiene tutto il Purgatorio è il senso del dolore cristiano. Però, al suo vertice, c’è la vera metamorfosi, la dialettica del dimenticare/ricordare che è la chiave della condizione della felicità (scopo del poema è la rappresentazione della felicità umana).

Bisogna far mente al punto più drammatico, la resa di Dante alla regalità/maternità di Beatrice. Egli è liberato dal peso delle sue colpe ovvero della causa del suo smarrirsi nella selva oscura. Ma per farlo deve accettare la requisitoria di un giudizio. E’ interessante la struttura psicologica di tale “giudizio”, che viene condotto come accusa dalla sua “salvatrice”. Nel tribunale Beatrice si appella alle schiere degli angeli. Dante entra in uno stato di angoscia (C.30, v.98) prima, poi (C.31, v.13) di confusione e paura, e infine (C.31, v.89) di collasso nell’acme del rimorso e del pentimento. Ma il rimorso coincide con il tornare impetuoso (C.30, v.33) dell’antico amore fino al suo soccombere (C.31, v.83) davanti alla nuova bellezza di lei. Poi, dopo il bagno nel Letè che dà l’oblio, parla la difesa per bocca di Matelda, che chiede (C.31, v.136) la grazia. Infine Beatrice dà al suo antico fedele/infedele, ora perdonato, la missione nel mondo (C.33, v.31). Dante allora viene immerso nell’Eunoè, che restituisce memoria solo del bene .

 

Nel Paradiso egli fa l’esperienza della felicità, che coincide però con lo stato dell’amore. La condizione è la gioia così come nell’Inferno è il dolore (fisico oppure spirituale, quest’ultimo fa la grandezza della condizione infernale, allorché diviene tragica; nell’Inferno si alternano il comico e il tragico, che nel Purgatorio e nel Paradiso sono assenti).

L’importante è ricordare che la visione è uno stato mentale di Dante personaggio (nel suo poema). Incontri, dialoghi, stati di contemplazione sono una sua esperienza, non il semplice resoconto di quanto da lui visto quasi fosse un viaggiatore dell’Ottocento che assista semplicemente a una serie di spettacoli pirotecnici, all’esuberante promozione di balli, musica, fiaccolate in qualche piazza ideale di una città del 1200. Il protagonista Dante vive quella condizione di disindividuazione gioiosa, abbandono della mente alla certezza, trasporto di tutti con tutti (magari lungo la sua memoria infantile: con la mano nella mano di sua madre attraverso a una folla festante!).

 

La sua molto/amata di un tempo è ora sentita in una rassicurante, intensa regressione a una plenitudine materna piena di tenerezza. Potere della bellezza assoluta identificata nella donna! Tuttavia non si può ignorare che il mutamento in Dante corrisponde piuttosto al ritrovamento del padre. E’ difficile sottrarsi all’impressione che Dante viva interiormente l’esperienza di un orfano che ritrovi il proprio padre, di volta in volta Virgilio (specialmente lui!), Brunetto, Cacciaguida, Bernardo, lo stesso ineffabile Cristo. La donna vi ha una parte cospicua, insostituibile: ma è forza che scende dall’alto, sempre come disincarnata. Invece la virilità del padre è la guida fisica, il contatto, il sostegno della forza.

 

Concludiamo queste annotazioni con l’osservazione iniziale. La Commedia è, in relazione al viaggio del personaggio/Dante, un estesissimo incontrare: apparizioni di differenti epoche, luoghi, condizioni. La ricostruzione di un mondo mentale, atemporale, costituito da amici e nemici, uomini idolatrati e maledetti nella condizione di un durissimo esilio ventennale. Non certo una “superiore” esangue ricostruzione storica! Ma in particolare include parodisticamente tutta la poesia di ogni tempo già vissuto (compresa la sua poesia  giovanile).

 

Però la letteratura che viene rivissuta è fatta anche di persone, o maschere che Dante stesso di volta in volta assume. Nel testo di Dante i poeti sono diventati dei personaggi: Virgilio, Stazio, Sordello, Bertrand, Guido e quanti altri sono persone, non solo poemi. Mi sembra un argomento importante per sostenere la tesi del carattere drammatico, non lirico della Commedia. Lo scrittore, nei confronti della poesia, diventa il portatore di un mandato che non coincide con l’ordine finale e definitivo dell’universo, ma con quello di una città umana ideale di rango inferiore, ma degna di onore. Perciò ogni grande poeta diventa personaggio attraverso e al di là della sua opera. Dante raccoglie in tutto il suo poema una città dei poeti, tanto da suggerire l’idea che la poesia celebri e narri se stessa, la propria lunga vicenda, atemporale perché interna a una vera tradizione (e non perché Dante non avesse il senso storico). Come un tornare sempre a se stessa, un vincere il tempo nell’eternità della mente.

 

E soprattutto lui, Dante. A ben rifletterci  possiamo dire che ci sono ben due Dante nella Commedia. Uno è quello che viaggia nel regno dei morti, l’altro è il Dante/personaggio che anche nella finzione poetica è vissuto come cittadino di Firenze e come poeta, e farà ritorno su nel mondo, abitandovi fino al termine dei suoi giorni. Nella finzione poetica sono una sola persona, ma il secondo si sovrappone al primo perché ha la missione di scrivere il poema (è, cioè, una parodia di Dante autore, un eroe ideale che compone il poema su mandato celeste). Perciò questo secondo Dante è la finzione di un Dante extrapoetico, simile al Dante scrittore.

 

Non possiamo pensare che Dante profetizzi la propria futura assunzione nel cielo dei beati, ma Dante personaggio invece lo fa: nella poesia questo accade. C’è dunque la finzione delle predizioni. Il tempo del viaggio, nel poema, è anteriore al tempo storico in cui viene scritto: perciò il suo presente è già il futuro storico del poeta. Dante/scrittore sa quello che invece Dante/personaggio ignora, e si sente predire come profezia. D’altra parte il futuro di Dante/personaggio, cioè il futuro interno al poema, comprende sia gli eventi storici veri e propri (che il vero Dante aveva vissuto, come la sfortunata impresa di Arrigo VII), sia un evento puramente immaginario come la venuta di Dante nel cielo dei beati alla fine della sua vita. Così l’esistenza storica del poeta diventa, da esperienza presente, annunciato futuro e l’intero poema ha l’aspetto di una profezia.

                            m.c.

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