I.P.S.E.G. | Istituto Piemontese di Studi Economici e Giuridici
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La Morte

La Morte

Settembre 2002 – Numero 78

Anche per il Cristianesimo la vera posta che si gioca con la religione è la morte. Si potrà fare del Cristianesimo un’ispirazione di tipo sociale, di tipo umanitario, di tipo morale ecc., ma questo sarà solo un modo per rimuovere la questione fondamentale. La questione fondamentale della religione e quindi del Cristianesimo è la finitezza umana e il suo senso.

Ci sono nell’esperienza religiosa degli uomini, nel tempo, due distinti atteggiamenti. E’ bene riflettere su questo.

Nel primo si stabilisce una linea di confine netta e rigorosa tra l’ambito del divino e l’ambito dell’umano. La separazione tra l’uomo e Dio fissa la sfera del sacro come una sfera eccezionale, che l’uomo rispetta, custodisce, preserva, cura e in cui opera il contatto necessario a ottenere la benevolenza e il favore della divinità. Ogni sforzo della religione si concentra nell’azione cultuale, volta a far risaltare la linea di confine attraverso il rigore perentorio della norma, l’accentuazione della lontananza/trascendenza del dio, il senso della nullità dell’essere umano in confronto dell’onnipotenza divina.

Nel secondo invece la linea di confine viene, per così dire, violata apertamente. Essa costituisce un ostacolo, piuttosto che un segno della presenza del divino. L’azione religiosa opera per raggiungere una identificazione tra l’uomo e la divinità, rivendicando sempre comunque una affinità reciproca originaria, e sostanziale. La finitezza umana, cioè la solitudine, il dolore e la morte, è sorpassata in una possibilità di mutamento dell’essere umano e della sua condizione integrale. Il linguaggio della religione allora è quello dell’essere posseduti o del comunicare diretto, intimo o collettivo, e l’esperienza religiosa tende ad assumere la condizione di travalicare la ragione, i sensi, la parola, la ragione comune.

E’ difficile che una o l’altra di queste due forme religiose fondamentali si presenti mai allo stato puro: questo è comprensibile tenuto conto della complessità della condizione umana. Tuttavia è possibile ritrovare la manifestazione dell’una e dell’altra nelle religioni per riconoscere, fra queste, la peculiarità del Cristianesimo.

La prima forma religiosa si ritrova nella religiosità greca arcaica e nella sua espressione sapienziale, nella tragedia (nonostante la tesi dell’origine dionisiaca), nello sfondo di certe filosofie che Aristotele ribattezzò come “naturalistiche”; si ritrova nelle religione “civile” delle città elleniche e di Roma; nella religione oracolare; si ritrova infine nel mondo biblico, dal racconto del Genesi alla legislazione mosaica, ai libri sapienziali ecc. Citiamo un esempio, tra i tanti, dell’antica tragedia.

Nel Prometeo incatenato di Eschilo, il Coro delle Oceanine invoca: “Gli dèi, i grandi signori, / non gettino l’occhio su di noi / se al loro amore non si può sfuggire; / è guerra non guerreggiabile, / via che chiude ogni via, / non si sa che si diviene, / non si vede per dove / si può scampare a un pensiero di Zeus” (terzo stasimo).

Nel suo lungo monologo il sapiente biblico Qohèlet insegna: “Così ho compreso che non c’è alcun bene per l’uomo se non che egli goda di quello che fa, perché solo questo gli è concesso, Nessuno infatti lo porterà a vedere ciò che accadrà dopo di lui”. E così pure il lungo duello tra Giobbe e il Signore si conclude con il riconoscimento della nullità umana dinanzi all’onnipotenza divina: “E’ vero, senza nulla sapere / ho detto cose troppo superiori a me, che non comprendo”.

La seconda forma religiosa si ritrova nelle forme estatiche delle religioni arcaiche, nelle religioni misteriche, nella filosofia platonica e successivamente nel misticismo neoplatonico,

e infine nel cuore della religione cristiana, cioè nella resurrezione. Nella Prefatio del Natale il celebrante invoca: “Accetta, o Padre, la nostra offerta in questa notte di luce, e per questo misterioso scambio di doni trasformaci nel Cristo tuo figlio, che ha innanzato l’uomo accanto a te nella gloria”.

Questa distinzione mi sembra molto importante per poter capire la psicologia dei popoli e gli orientamenti della cultura.

Nella religione greca arcaica è forte il senso del limite della condizione umana. Tale limite, come sappiamo, raggiunge la paradossalità della pura contraddizione nella tragedia, dove l’eroe soccombe non ad avvenimenti eccezionali ma alla stessa impossibilità di un’armonia tra l’esistenza e il suo senso. Le religioni civili, sia in Grecia e a Roma che presso il popolo biblico, si procacciano il favore e la protezione degli dèi (o del dio etnico) attraverso l’offerta sacrificale. Le letterature religiose di questi popoli (limitando il tema a queste espressioni a noi più prossime) chiedono scampo, salvezza, felicità entro la finitezza dell’esistenza temporale. Quello che conta è il rispetto del limite, il riguardo delle norme, la sottomissione (più accentuata in oriente che in occidente). Da queste deriva una sorta di conciliazione fra gli uomini e le loro divinità, che può arrivare anche a una vera elezione collettiva (che comporta soprattutto la sconfitta e lo sterminio dei nemici) oppure in certi casi eccezionali a un favore personale (pensiamo alla vicenda di Edipo (a Colono), di Oreste, e dall’altra sponda di Abramo, di Giobbe). A Roma non si faceva nulla, sia in pubblico che in privato, senza aver prima ottenuto con dei riti il favore della divinità.

Invece nelle forme estatiche arcaiche il contatto con la divinità viene cercato attraverso veicoli come la danza, il canto, l’esaltazione individuale o collettiva stimolata anche con sostanze stupefacenti ecc. Si può dire che queste forme abbiano interessato praticamente tutte le religiosità arcaiche dell’uomo.

Si sa che le religioni misteriche, legate a svariate divinità come per esempio Dioniso o Zagreus o Demetra, praticavano l’unione fra la divinità e l’iniziato mediante riti e conoscenze. Nella laminetta orfica trovata a Turii (IV sec. a.C.) il defunto è guidato nell’aldilà con queste parole: “..Sfuggii al cerchio, che dà pesante dolore, e aspro, / salii fino alla bramata corona con i veloci piedi, / e mi immersi nel grembo della signora, regina sotterranea; / poi scesi dalla bramata corona con i veloci piedi: «O beato e felicissimo, sarai un dio anziché un mortale.»”. E nel Libro dei Morti del Nuovo Impero d’Egitto il defunto viene assimilato a Osiride, colui che avendo vinto la morte è risorto nell’apoteosi dell’immortalità. Tutte le forme di platonismo si basano sul raggiungimento sovrarazionale di un contatto con il divino, anzi di una vera immedesimazione.

Ma è il Cristianesimo, con il “mistero” dell’incarnazione, della morte/sacrificio e della resurrezione/comunicazione del dio, a rappresentare la forma diciamo così perfetta della religione che oltrepassa il limite dell’esistenza, anzi lo distrugge per offrire ai “salvati” (o, secondo altre interpretazioni, ai “perdonati”, agli “amati”) l’unione con sé.

Questo non vuol dire che una forma sia, per così dire, superiore all’altra. Si tratta di due grandi dimensioni del religioso, non raramente frammischiate in parte tra di loro, ma in definitiva (e a ragionarci un po’ sopra) non facilmente compatibili in assoluto, benché si possa facilmente avvicinarle in superficie. Perché la prima si basa sul contatto col divino per riaffermare la distanza, la differenza, la separazione. Il secondo fa del contatto col divino un semplice mezzo per raggiungere una diversa condizione (diversa da quella di partenza), che consiste nell’identificazione e in definitiva nel raggiungimento del possesso delle caratteristiche della divinità.

Niente è più distante dalla mentalità di un greco della tragedia, o di un ebreo del Pentateuco o dei Sapienziali, o di un romano della “religio”, della concezione degli evangelisti. Là vi domina una pietas attenta soprattutto a rispettare la potenza della divinità e a non comprometterne il favore. Qui il motivo dominante è il dono di sé del dio/vittima/vittorioso per identificare a sé l’umanità separata.

Questa distinzione in due forme serve poi naturalmente a capire l’atteggiamento religioso nei confronti della morte. Infatti la morte è il senso radicale del limite umano, ed è perciò nei confronti della morte che ogni forma religiosa rivela la sua vera ragione d’essere. Proprio riguardo la morte, perciò, le due tendenze manifestano la loro differenza in modo netto. La prima tendenza concepisce davvero la morte come il punto invalicabile e perciò dalla morte tende a trarre il significato e il valore dell’intera esistenza. Ciò vuol dire che la morte non è solo la fine di un individuo, ma soprattutto che la vita di un individuo viene per così dire esaltata e resa unica e preziosa dal suo dover morire. Naturalmente la morte può anche portare un senso di sconfitta, di catastrofe nei confronti dell’esistenza, ma questo accade nel non accettare veramente (pur riconoscendolo) il suo limite e destino. Nella dodicesima tavola del Poema di Gilgamesh, l’eroe mesopotamico raggiunge l’ombra di Enkidu condotta fuori dalla cupa dimora dei morti ed esclama “Parla, amico mio! Parla, amico mio! Annnunziami la legge di quella terra che tu hai veduto!”. Ed Enkidu “Se ti rivelassi la legge della terra che ho veduto, ti siederesti per piangere”. Gilgamesh insiste, e allora così gli risponde Enkidu:” L’amico che tu hai afferrato per rallegrarti con lui è mangiato dai vermi, come se fosse un abito smesso. Enkidu, l’amico che la tua mano ha toccato, è diventato come della terra argillosa; è pieno di polvere, è diventato polvere”. E il biblico Salmo 88 lamenta a Dio: “Fra i morti è la mia dimora, / di essi tu non hai più alcun ricordo, / sono tagliati fuori, / lontani dalla tua mano… Forse tu compi prodigi per i morti? / O sorgono le ombre a celebrare le tue lodi? / Si parlerà forse nel sepolcro della tua misericordia? / O della tua fedeltà nel luogo della distruzione? Forse nelle tenebre si annunzieranno le tue meraviglie?”.

L’accettazione invece porta alla saggezza di certe filosofie, alla sottomissione religiosa dell’uomo che riconosce l’ordine o la volontà di chi gli ha fatto dono della vita e perciò gliela toglie. Molte religioni hanno insegnato nei confronti di tale concezione della morte un comportamento valoroso ed eroico. Nella tragedia la morte è spesso invece una liberazione dal dolore. “Venga, venga la morte, adesso, e sarà bella: ultima sventura dell’ultimo giorno. Venga, venga: mi porti l’ultimo giorno, la sorte migliore”. Così esclama Creonte nella seconda antistrofe dell’Antigone  sofoclea. Il mondo biblico esalta la morte serena in pace con Dio, ma il regno della morte, lo sceòl, è così descritto nel Libro di Isaia: “Perché lo sceòl non ti loda né la morte ti celebra. / Non sperano nella tua fedeltà / coloro che scesero nella fossa.”.

Invece il Cristianesimo sfonda il muro della morte e questo è il centro di tutto. La resurrezione del Cristo si comunica ai credenti e la vita, come per lui, significa ciò che vale in relazione a questo. Tutte le esposizioni di un Cristianesimo volto a questo mondo, per migliorarlo e renderlo più felice, naufragano davanti al suo vero messaggio: divieni divinità! Ossia, Cristo chiama a sé e al risultato della sua impresa. Un Cristianesimo volto a questo mondo, per migliorarlo e renderlo più felice, contiene un compromesso con l’altra forma, inestinguibile nel cuore dell’uomo: la paura, il bisogno di sicurezza, il desiderio di successo.  Ma il Cristianesimo non è questo; non perché in sé la religione cristiana (qui è giusto chiamarla fede nel senso peculiare del riferimento all’oltrepassamento della morte, mentre le altre forme religiose accettano tutta l’evidenza della morte) sia contraria al benessere, al successo, alla felicità. Ma perché pone l’oggetto del desiderio umano proprio nell’identificazione con la divinità. La storia del Cristianesimo è un continuo smascheramento del desiderio, nel senso che insegna a riconoscere che il vero senso del desiderio umano non sono le cose di questa terra, ma è Dio. Questo apparenta strettamente il Cristianesimo alle filosofie platoniche. Inoltre spiega il dramma di certe filosofie atee moderne, lacerate in realtà nell’impossibilità di accettare l’evidenza e insieme di accettare la fede.

                                               m.c.

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