Aprile 2002 – Numero 74
Un bambino fa parte del nemico?
Il lato più impressionante di quanto si sta consumando in Terrasanta è l’assassinio indiscriminato di giovanissimi e di bambini. È la prova di un’assenza totale di leggi, cioè di limiti, nella guerra, come ben mostra l’uso dei terroristi di farsi esplodere tra passanti ignari e casuali anche senza un obiettivo militare, cancellando così la distinzione tra soldati e civili. L’operazione condotta dai carri armati israeliani nei campi-profughi palestinesi non si differenzia nella sostanza da una pulizia etnica in grande stile, come nella ex-Yugoslavia, con lo scenario di distruzioni e di massacri che includono certamente donne e bambini. La domanda è su quale diritto si fondi la liceità pianificata di non risparmiare nessuno, nemmeno i bambini. Sia chiaro, non voglio aprire il problema entro un troppo facile richiamo ad emozioni elementari, che lascio alle prestazioni professionali dei manipolatori di sentimenti, né intendo qui spolverare la retorica della “terra delle tre religioni monoteiste” (da decenni la Palestina è piuttosto un inferno che una “terra promessa”).
In Palestina, come del resto nell’Afganistan bombardato dagli americani e a New York nello scorso Settembre, si manifesta uno scontro che non conosce più un “nemico dichiarato” ma si basa, alla lettera, sul diritto di annientamento indiscriminato. Ciò avviene nel quadro di un’ideologia mondiale che ha sostituito da tempo le leggi tradizionali relative allo stato di guerra tra i popoli, e agli impegni che derivano dal riconoscimento giuridico e morale di un nemico. Essa si arroga il diritto di criminalizzare e mettere “fuori legge” un popolo o un sistema di governo, giustificandone anche la possibilità di annientamento.
La concezione “delinquenziale” del nemico
Con l’affermarsi del ruolo egemone degli Stati Uniti nel corso della Prima guerra mondiale nacque e venne imponendosi una nuova concezione dei rapporti internazionali tra Stati, governi e popoli. L’ingresso degli americani in guerra, nell’Aprile 1917, si annunciò con la criminalizzazione dell’Impero tedesco di Guglielmo II. Gli U.S.A. non entrarono nel conflitto come alleati dell’Intesa, ma solo come “associati”, e dichiararono di condurre una loro guerra particolare contro i tedeschi, che significava in generale una guerra contro il passato dell’Europa. Inoltre i “14 punti” con cui il presidente Wilson dettava le condizioni della futura pace annunciavano una nuova visione dell’ordine mondiale, non più eurocentrica. Al posto del riconoscimento della possibilità dello stato di guerra fra Stati, con le sue regole e le sue leggi, si affermava una “pace perpetua” con la messa in accusa dei governi che l’avessero violata. La “Società delle nazioni” avrebbe sostituito il “vecchio” sistema internazionale con una democrazia mondiale di nazioni che avrebbe affrontato le controversie internazionali con arbitrati capaci di imporre sanzioni economiche e interventi militari. Lo stato di guerra non era più contemplato, ma si determinava una situazione intermedia abnorme tra guerra e pace, con la mescolanza dei due concetti. La pace di Versailles del 1919 apriva un’epoca in cui la concezione di “nemico” andava molto al di là della distinzione tra combattenti e non combattenti, fra pace e guerra. L’odierna condizione internazionale di un paese come l’Irak ne è una dimostrazione. Alla parola nemico si venne sostituendo quella di aggressore, e aggressione venne considerata, per ispirazione del presidente Wilson, l’iniziativa del paese che avesse dichiarato guerra, oppure avesse violato un confine o anche solo una determinata procedura. Inoltre si stabiliva un’equivalenza tra aggressore (così inteso) e criminale, e in tal modo il diritto internazionale e le relazioni tra Stati ebbero una definizione di tipo criminale e penale. La conclusione era la riduzione del nemico al ruolo di delinquente.
L’idea di una guerra totale
Veniva così sancito un concetto nuovo di guerra, quello di guerra totale. Essa superava, come dicevamo, la distinzione tra combattenti e non combattenti, perché oltre alla guerra dei soldati ve n’era nel quadro delle ostilità un’altra: economica, propagandistica, produttiva e giuridica. Del resto proprio il drastico blocco economico, imposto durante la Guerra mondiale prima dagli inglesi poi dagli americani, impedendo alle nazioni neutrali di inviare i rifornimenti alla Germania, aveva ridotto alla fame la popolazione tedesca nel 1918 causando una vastissima mortalità (una delle vittime di tale blocco fu anche lo scrittore Franz Kafka). La guerra totale coinvolgeva dunque i settori extramilitari intensificando il concetto di ostilità. Anche il tradizionale concetto di neutralità subiva una pesante emarginazione a causa dell’identità criminale attribuita al nemico. Il blocco economico imposto dagli americani nel conflitto aveva colpito proprio la neutralità dei paesi non schierati, minacciandoli direttamente in caso di non ottemperanza del divieto dei rifornimenti.
Il nemico assoluto
Nello stesso periodo, a partire dal 1917, la rivoluzione comunista in Russia aveva dichiarato un tipo di guerra destinato a scuotere dalle fondamenta tutte le concezioni giuridiche fino ad allora in vigore all’interno degli Stati perché muoveva da un’interpretazione della guerra e del nemico che faceva riferimento a un’altra utopia universalistica, quella della società senza classi. Rispetto all’utopia wilsoniana della pace e della felicità democratiche, quella che Lenin sosteneva di inverare per mezzo del rovesciamento della guerra tra Stati in guerra civile, aveva la caratteristica di identificare a priori un male assoluto nella proprietà e un nemico corrispondente nella classe proprietaria. Di fronte alla realizzazione di una società senza più classi, e perciò egualitaria, e del raggiungimento di un grado di umanità assoluta come soluzione finale della storia, qualunque oggettiva situazione che fosse di ostacolo o di resistenza non poteva che rappresentare il peggiore dei crimini. La criminalizzazione del borghese, del contadino proprietario, del prete seguivano a quelle del nobile e del finanziere nel filo di una successione di categorie sociali che dovevano necessariamente sparire per lasciare il posto all’unica cui venisse conferita dignità di soggetto della storia, l’operaio comunista. Fu così che il Partito comunista iniziò la tecnica della soppressione di massa, che derivava certamente dalle esperienze di annientamento del nemico della guerra, ma che ora riguardava prima di tutto la popolazione civile. Il simbolo più eloquente fu l’eccidio dell’intera famiglia dello Czar Nicola II.
La politica come annientamento
Alla fine dell’estate del 1918 il governo sovietico legalizzò il terrore con un decreto (“Sul terrore rosso”). Nell’occasione uno dei capi bolscevichi, Gregorij Zinovev, affermò: ”Per distruggere i nostri nemici dobbiamo avere il nostro proprio terrore socialista. Dobbiamo tirare dalla nostra parte, diciamo, novanta sui cento milioni di abitanti della Russia sovietica. Quanto agli altri, non abbiamo nulla da dirgli. Devono essere annientati”. Sempre nell’estate del 1918 sulle “Izsvestija” si leggeva: “La guerra civile non ha leggi scritte. La guerra capitalista ha le sue leggi scritte, ma la guerra civile ha leggi proprie.. Nella guerra civile non ci sono tribunali per il nemico. E’ un duello all’ultimo sangue: se non uccidi, sarai ucciso. Dunque uccidi, se non vuoi essere ucciso”. L’autore era Lacis, stretto collaboratore di Dzerzinskij. Su ispirazione personale di Lenin venne inaugurato un nuovo strumento di repressione, il campo di concentramento, destinato alla deportazione della popolazione civile. Nell’aprile del 1919 un decreto distingueva tra “campi di lavoro forzato” destinati a quanti fossero stati giudicati da un tribunale, e “campi di concentramento” per tutte quelle persone che erano state incarcerate come “ostaggi”, per la maggioranza vecchi, donne e bambini, in base a una semplice ordinanza amministrativa. La prima vera eliminazione collettiva venne effettuata fra il 1919 e il 1920 con la pianificazione e lo sterminio del popolo dei Cosacchi del Don e del Kuban’: su una popolazione di 3 milioni vennero uccise o deportate da 300 a 500 mila persone. Quello che seguì dal 1929 è conosciuto come deportazione e sterminio dei kulaki, ma è forse meno noto che la carestia provocata deliberatamente dalle autorità sovietiche per piegare la resistenza del ceto contadino fece anche morire di fame 6 milioni di persone.
Nemici dell’umanità
E’ necessario ripetere che siamo di fronte a una utopia politica che dichiara possibile il raggiungimento di una condizione universale di umanità. Anche quella americana possedeva dei tratti analoghi, sostenuti col rigore e la fede di una religione, benché fosse legata a una visione sociale che stava agli antipodi della prima. Si trattava per entrambe di prendere come punto di partenza la sostituzione della sovranità dei singoli Stati con un sistema mondiale guidato da dei princìpi assoluti. Veniva poi assunta una visione finalistica della storia, destinata a sfociare in una realizzazione compiuta di società fra gli uomini. Assolutamente simile era poi l’identificazione del nemico alla luce di un concetto puramente giudiziario, teso a criminalizzarlo. Il nemico è dichiarato fuori-legge per definizione, e come tale non può essere garantito da alcun diritto internazionale perché è nemico dell’umanità. Infatti sia l’utopia wilsoniana di origine battista sia l’ideologia leninista di origine, come si sa, marxista, sminuiscono o annullano l’attualità del significato storico dei popoli, per sostituirvi una più originaria espressione di umanità, di uomo: un uomo e basta, si direbbe. Perciò esse si dichiarano in nome di un più autentico valore dell’uomo, dell’umanità, che prescinde dalle condizioni storiche, benché si sappia bene che gli uomini e la loro propria storia non si possano assolutamente separare. Esse dichiarano il valore-uomo in se stesso, ma proprio per questo il nemico diviene nemico dell’umanità.
La catastrofe della storia
Invece la concezione di male e di nemico assoluti attribuito da Hitler alla razza ebraica ha come sfondo non l’utopia ma la catastrofe. A partire dal 1918 Hitler intese la storia moderna come il precipitare di una catastrofe quasi inarrestabile e concepì la rivoluzione nazional-socialista come l’impedimentum (S.Paolo, II Lett. ai Tessalonicesi) ancora in grado di arrestare quel mistero d’iniquità, che egli interpretava nel processo di dissoluzione dei popoli causato innanzitutto dall’ideologia bolscevica, e poi dalla concezione americana del mondo. Non è blasfemo il mio richiamo alla lettera di S.Paolo, poiché è certo che l’apostolo si riferiva alla sanguinosa persecuzione cui gli Ebrei sottoponevano i cristiani, e all’autorità dell’impero romano come forza capace di trattenere i nemici del cristianesimo. Alla testa della rivoluzione comunista in marcia in Europa Hitler scorgeva un numero di Ebrei così considerevole, da fargli pensare che quella fosse “una rivoluzione ebraica”. Ed anche lui istericamente raschiava il fondo, per così dire, della storia per cercarvi una pura umanità da salvare (nei termini noti di razze sane, lavoratrici, guerriere ecc.), al di là della vera portata della storia e dell’incidenza di questa nella cultura sia dei tedeschi che degli altri popoli europei. Una rivoluzione, come fu quella nazional-socialista, che capovolga una utopia in una catastrofe, non poteva non possedere lo stesso orientamento a riconoscere un nemico radicale, che sotto la definizione di “giudaismo” unificava le caste che guidavano le decisioni che si venivano assumendo nella Russia sovietica e minacciavano (o promettevano, a seconda del punto di vista) di bolscevizzare l’intera Europa e in primis la più esposta compagine della Germania, con quelle che da Wall Street controllavano la pressione finanziaria sulla Germania alle prese con le famose “riparazioni di guerra”. In più, e alla base forse della “psicologia” del nemico assoluto che sta alla base del nazional-socialismo, la decisione a Versailles di giudicare la Germania del 1914 guilty, cioè unica colpevole dello scoppio della guerra. In questa comprensione patologica del destino dei tedeschi, la radicalità della guerra supponeva in Hitler un senso ultimo, estremo della storia: si rileggano certi discorsi tenuti dal führer tedesco. Si riconoscerà facilmente in essi il rovesciamento esatto dell’enfasi utopistica delle enunciazioni roosveltiane, o delle enunciazioni staliniane. Vi si trova la stessa visione apocalittica, solo che in questi ha tinte messianiche, in Hitler tragiche.
Ogni guerra diventa guerra civile
La sostituzione del nemico tradizionale, a cui si “dichiara la guerra” in base a un ordine internazionale che presume lo stato di guerra come distinto dallo stato di pace (senza che per questo venga meno il concetto di “nemico” in rapporto agli interessi di uno Stato), con la messa fuori-legge dei governi di Stati considerati ostili o di strati della popolazione considerati secondo il punto di vista della guerra civile, era dunque giunta alle estreme conseguenze quando ebbe inizio la Seconda guerra mondiale. Ma va chiarito che ciò era stato possibile soltanto perché sia Wilson, sia Lenin, sia poi lo stesso Hitler (e non escluso naturalmente Mussolini) avevano tratto dalla guerra del 14-18 tutte le conseguenze possibili dal punto di vista politico. Era stata quella guerra, per le sue caratteristiche intrinseche, a determinare il suo orientamento in guerra civile. Perché questo è il senso ultimo dello sterminio esteso alle popolazioni. Se ogni guerra è una guerra condotta per l’umanità, essa è una guerra civile e non più una guerra tra Stati, perché la si combatte per una causa in cui nessuno può essere neutrale o risparmiato, e il nemico è assoluto. Certo i bambini non minacciano la pace, ma cosa potranno fare domani quando saranno cresciuti? E in ogni caso, non sono parte indistinguibile se il soggetto criminalizzato è per forza inteso come collettivo?
L’annientamento delle popolazioni
Si è dimenticato, almeno alla luce di queste tesi, che la svolta data alla guerra tra il 1941 e il 1942 da W.Churchill, allorché decise di iniziare il bombardamento terroristico delle città tedesche, esprimeva esattamente un simile intento genocida che coinvolgeva direttamente la popolazione non combattente, e senza dubbio comprendeva di fatto, in primis, le donne e i bambini. In un discorso dell’aprile 1941 disse che “Vi sono meno di settanta milioni di questi unni malvagi – alcuni bisogna salvarli, gli altri bisogna ucciderli”. Voglio qui rammentare, come caso esemplare, che bastò una sola delle incursioni aeree notturne su Amburgo, quella del luglio 1943 nota come “operazione Gomorrah”, a causare fra la popolazione la stessa cifra di uccisi del lager tedesco di Dachau negli anni della sua durata. E che sorte toccò allora agli abitanti di Amburgo, trasformata in un orrendo braciere? Un orrore senza limiti, una lenta agonia provocata dall’inalazione di vapori bollenti, dall’incendio del fosforo inestinguibile all’aria per cui le madri straziate preferirono gettare i loro figli nelle acque dei canali ad annegare piuttosto che lasciare che si prolungassero le loro sofferenze!
Una dottrina unilaterale
Grazie alla continuità di una pedagogia esclusiva, sistematicamente riprodotta in tutti gli ambiti della comunicazione, è a tutti ben noto che nel corso della Seconda guerra mondiale, anzi dalla fine del 1941 in poi, la Germania nazista condusse una guerra senza pietà contro il “giudaismo”. Le premesse c’erano perché, nelle campagne di annientamento condotte soprattutto in Polonia e in Russia, la generalizzazione degli internamenti e delle soppressioni di vite umane raggiungesse un livello impressionante, anche senza troppo badare alla controversa questione delle cifre.
E’ però solo a partire dagli anni 70 che è stata diffusa una tesi che ha non dico il proposito, ma l’effetto di velare la verità che sta al fondo della strage degli innocenti del XX secolo. Secondo tale tesi, la tragedia degli Ebrei possiede un carattere di unicità nei confronti di ogni altro evento simile della storia. Una tesi del genere è sorta all’interno dell’ebraismo religioso, come soluzione della questione capitale del perché Dio ad Auschwitz non c’era. E’ una questione che può essere sollevata solo riguardo a un Dio che aveva stabilito il rapporto con il suo popolo in termini di elezione etnica. L’unicità della tragedia consisterebbe pertanto nella terribile inspiegabilità della lontananza di Dio, che renderebbe perciò vane tutte le categorie con cui si spiega la storia. In seguito però tale tesi religiosa generò un diverso, anzi opposto significato, questa volta di segno politico. Designava l’entità particolare di un “male” che la persecuzione aveva espresso nei confronti degli Ebrei d’Europa, attribuendo ad essi, da allora in poi, una posizione esclusiva.
La soppressione degli inermi
Ma questa dottrina senza precedenti ignora il vero sfondo spirituale che consente dal 1917 di cancellare la linea di demarcazione tra nemico e criminale, tra militare e civile, tra armato e inerme. Inoltre, attribuire una unicità al carattere della sorte degli Ebrei non può che radicalizzare, confermandolo, il giudizio che intende la politica come contrasto di assoluti. Eppure dovremmo essere più avvertiti che, nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, non solo in Europa orientale da parte dei sovietici e da parte dei tedeschi la messa fuori-legge del nemico consentiva deportazioni e stermini, ma anche nella decisione anglo-americana di colpire le popolazioni inermi nelle città tedesche e giapponesi si applicava il principio di non distinguere più tra l’uccidere i soldati in battaglia e l’uccidere i civili nelle città. Non si capirà mai il nostro destino contemporaneo se non verrà affrontato come un genocidio l’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, allorché una élite dal sicuro di laboratori e uffici in città d’oltre Atlantico calcolò freddamente di annientare una popolazione in cui si sapeva che non c’erano soldati, ma molte migliaia di bambini.
m.c.