I.P.S.E.G. | Istituto Piemontese di Studi Economici e Giuridici
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Immanenza e Trascendenza

Immanenza e Trascendenza

Luglio 2002 – Numero 77

La filosofia più autentica ha la vocazione di essere radicale, non certo perché debba, come suol dirsi, estremizzare le proprie affermazioni (non mancano anche esempi del genere), ma perché ha la vocazione a cercare quello che è più originario. Infatti se una ricerca critica non investe direttamente il proprio orizzonte dato, evidentemente si risolverà in un residuo di realtà non problematizzato. Ma compito della filosofia è innanzitutto rendere problematico ogni dato della realtà, a partire proprio da quelli più ovvi, consapevole del presupposto che ognuno di noi naturalmente possiede già un quadro interpretativo delle cose, ereditato da altri e alimentato poi dalla propria esperienza.

 

Perciò il filosofo è colui che si cimenta con la totalità di tale quadro, mettendolo seriamente in discussione con delle domande fondamentali, che mirano a criticare il punto iniziale da cui il quadro stesso deriva. Infatti la filosofia è nata anticamente come ricerca dell’arch, o principio originario, a cui va confrontato poi ogni dato che noi teniamo per certo e quindi per reale. Se non fa questo, se prende come originarie o non problematizzabili delle categorie di realtà che risalgono a presupposte certezze, il filosofo conserverà una traccia più o meno profonda di dogmatismo, che rappresenta oltretutto anche un comodo rifugio per il pensiero. Ma il pensiero non deve fermarsi a lungo nei propri rifugi.

 

Naturalmente ci sono state, anzi abbondano, filosofie che sono nate col proposito di ribasare o giustificare in maniera forte un’immagine già anticipatamente acquisita della realtà. In quei casi però la filosofia diventa qualcosa di secondario rispetto a tale scopo. Ciò vale soprattutto per certi sistemi filosofici di orientamento religioso, o politico, o scientifico. Un esempio del primo è il sistema tomista. Del secondo si può benissimo citare la filosofia di Marx. Del terzo quelle di Descartes o di Locke. Ed è ben vero che questi filosofi citati hanno cercato un principio,  (S.Tommaso l’esse, Marx la struttura economica, Descartes il Dio/ragione), ma l’hanno fatto per fondare solidissime le condizioni di una realtà che essi davano già prima per certa. Naturalmente si tratta anche di grandi filosofie, che tuttavia hanno cercato intenzionalmente il compromesso con qualcosa di già precedentemente acquisito e poi non più problematizzato: per S.Tommaso l’essere individuale degli enti secondo l’essenza, per Descartes l’ordine della fisica meccanicistica del mondo, per Marx addirittura un rivolgimento economico-sociale nella storia.

Kant

Lo stesso Kant subordinò il suo progetto di una critica alla metafisica, al proposito di dare un fondamento stabile al sistema della fisica galileo-newtoniana. Per far questo, impostò la questione del vero, che implica costrizione e unificazione (e coincide con la visione scientifica del mondo) sulla misura delle nostre categorie del pensiero, anziché di una realtà in se stessa. Egli confermava che la verità è il dominio della necessità o costrizione, poiché le categorie di pensiero sono sì nostre, ma come una legge invariabile che funziona senza che noi lo vogliamo.

 

Tuttavia fu ancora Kant a cercare in una diversa direzione la fondazione di un mondo umano che fosse soggetto non alla costrizione bensì alla libertà. Che cos’è la libertà? E’ l’assoluto che sorge quando il nostro spirito è veramente autonomo. Assoluto vuol dire, appunto, non costretto, non condizionato da alcunché. A questo punto però la libertà si separa dalla verità (dall’oggetto del nostro sapere, dalla certezza della realtà). Il suo dominio è il volere, il cui imperativo originario, sostiene Kant, è autonomo. La volontà, che determina il nostro agire, può essere infatti legge a se stessa.

Schopenhauer e Nietzsche

Furono però due filosofi, uno dei quali era un kantiano eretico, a distruggere, alla luce del carattere originario del volere, i tradizionali fondamenti della verità, e quindi ciò che rende legittimi sia il contenuto della scienza che la forma della razionalità. Tanto Schopenhauer quanto Nietzsche videro nella volontà l’origine della verità. Però la volontà in sé è del tutto inconscia, priva di senso. Perciò il vero, in cui la volontà si oggettiva, è mito e l’intero mondo dei significati, e della realtà che ad essi dovrebbe corrispondere, non è che il fantasma, o la maschera, di un fondamento (un alfa e omega, potremmo dire) cieco e dominante, il puro volere.

 

Nella volontà è in gioco un fondamento che aliena il fondato. E’ impossibile perciò per i filosofi del 900 fare autentica filosofia se non a partire dal conflitto tra libertà e necessità, tra volontà e pensiero razionale, tra fondamento e fondato. L’affermazione della volontà come smascheramento della verità che cosa comporta? O la riduzione della verità a strumento (di una libido in sé avulsa da ogni significato o scopo, solo la mera affermazione di se stessa: e qui entra in gioco il problema del dolore), o la ricerca di qualcosa di più originario della volontà stessa, ma perciò anche della “verità” che da essa deriva. Il destino del Cristianesimo ne è implicato naturalmente in maniera essenziale. I due filosofi che si sono davvero misurati a fondo con questo problema sono da un lato Giovanni Gentile, dall’altro Martin Heidegger.

Gentile

La filosofia di Gentile, dai primi studi del 1898 e ’99 dedicati a Rosmini e Gioberti (e in sostanza alla problematica kantiana) e a Marx (e in sostanza a quella hegeliana), fino a Genesi e struttura della società vicina ormai al suo assassinio avvenuto nel 1944, si concentrò su pochi punti essenziali che emergono interi nella Riforma della dialettica hegeliana del 1913, nella Teoria dello spirito come atto puro del 1916, e soprattutto nei due volumi della Logica pubblicati fra il 1917 (il primo, che è una discussione storica) e il 1922 (il secondo, la vera e propria teoria della logica). Gentile porta alla dissoluzione la filosofia hegeliana. Se la realtà è pensiero che si realizza, la verità non può mai trascendere il pensiero.

Hegel nella Fenomenologia dello Spirito si contraddice: non ci può essere pensiero che debba sollevarsi alla verità, come se mancasse di essa e fosse vuoto. La verità non precede il pensiero, coincide con esso. Né il pensiero tende alla verità: la è. Per dire questo, tuttavia, occorre focalizzare il pensiero nell’atto pensante, non nei suoi contenuti man mano che vengono pensati.

Il punto cruciale è direttamente la base, dove Hegel costruisce la fondazione della propria dialettica. Gentile radicalizza l’immanenza, distruggendo l’hegelismo proprio nel suo stesso cominciare, che, sostiene Gentile, è ancora un residuo di trascendenza, perché concepisce l’origine del processo (della realtà) come qualcosa di determinabile, di oggettivo, di categoriale. Hegel cerca l’inizio del divenire e lo trova nel puro essere, come categoria opposta ed equivalente al niente. L’immanenza consiste invece nell’affermare che l’atto del pensiero, come tale, non ha nulla di presupposto a sé. Dunque Gentile mette in discussione, nella realtà, la preesistenza originaria di una oggettività, e della corrispondente soggettività. Non c’è realtà che trascenda il nostro atto di pensare. Non vi sono oggetti (non solo come cose, ma anche come princìpi) che precedano l’atto di pensare, o gli stiano di fronte, o all’inizio. Perciò anche il soggetto, in questo radicale immanentismo, non esiste affatto prima, né come presupposto, dell’atto del pensare.

Ciò vuol dire che non esistono semplicemente dei soggetti e non esistono semplicemente delle categorie come sostanza, causa e effetto, spazio, temporalità, né esistono delle cose. Soggetti, categorie, cose sono il farsi obiettivo di un atto di pensiero che in sé è creazione di ogni relazione causale, spaziale e temporale. L’atto perciò è eterno, privo di luogo, è contingenza e insieme necessità, non limitato da nulla e perciò infinito. Le forme a priori che Kant aveva elaborato nella Critica della Ragion pura per consentire un nuovo concetto di oggetto, di oggettività, vengono da Gentile moltiplicate all’infinito perché scaturiscono da un atto assoluto, come tale inoggettivabile, che trasforma il fenomeno dell’esperienza,  con cui Kant aveva identificato la scienza, in esperienza assoluta.

L’esperienza è assoluta perché nulla presuppone a se stessa, e perciò corrisponde a un atto di continua autocreazione. Gentile si esprime coi termini del tradizionale idealismo, ma questa terminologia ancora hegeliana è ben oltre l’hegelismo. Ciò che il pensiero crea è se stesso, e perciò è Io, autocoscienza. Ma la lontananza da Hegel è irrevocabile. L’autocoscienza in Gentile non è mai affermazione determinata, mai qualcosa di oggettivo. Essa consiste (consiste?) nel nulla del proprio essere. Essere è affermare. Ma ogni affermazione si riferisce a quel pensato, che è la negazione intrinseca al pensare. Ogni affermazione di sé, per l’Io, viene a costituire una negazione. Il nulla di sé è perciò la verità dell’atto di pensiero e perciò l’autocoscienza. Si capisce qui perché questa concezione gentiliana del pensiero lo fa coincidere con l’azione: non, com’è parso a taluno, per una parentela con le filosofie vitalistiche, ma per l’intima negazione del pensare che tende, abbandonando sé come un niente, a negarsi nel proprio oggetto creato “in quel miracolo dell’autocreazione a cui ognuno di noi assiste eternamente dentro di sé” (Logica, II, p.64), ma senza risolversi in esso, cioè senza mai esistere in esso, perché se si fissasse mai una volta cesserebbe di essere.

Si faccia attenzione. L’immanenza fa sì che ogni soggetto, ogni categoria, ogni oggetto corrispondano al puro atto creativo, dove ciò che accade non si può separare dall’atto eterno che lo fa accadere, e la storia nel suo travaglio non si stacca dall’atto come autogenerarsi. Gentile perciò parla della storia come teogonia, e come dramma divino. Ciò vuol dire che verità e necessità coincidono con invenzione e libertà. Nella direzione dell’origine, siamo oltre alle antinomie di volontà e verità, di libertà e costrizione, di fondamento e fondato. La realtà non consiste nella separazione/opposizione tra concetti e cose, o tra conoscere e essere, o tra soggettività e mondo oggettivo: come Io, la realtà è “essere senza fondo” (Logica, II, p.166). Essere senza fondo, “o senza scorza, come diceva Goethe. Non: essere che si svela; ma essere che consiste appunto nello svelarsi” (id.). L’Io di Gentile è sì l’assoluto, ma nell’estremo abbandono all’istante temporale, in cui si ritrova totalmente.

 

Heidegger

L’analisi esistenziale che Martin Heidegger svolse in Essere e tempo, pubblicato come è noto nel 1927, muoveva significativamente dal problema filosofico più originario, quello dell’essere: però si volgeva a indagare l’essere dell’uomo, in quanto egli è apertura della domanda sull’essere e quindi ente privilegiato nella relazione con l’essere. Anche Heidegger in questo modo abbandonava l’essere della metafisica per affrontare la situazione dell’uomo come tale, cioè come Dasein, l’ente la cui essenza è la comprensione dell’essere.

Più precisamente, l’uomo è quell’ente che ha l’essenza nell’esistenza. Ma l’esistenza acquista allora un diverso significato da quello tradizionale, che presupponeva un’essenza. L’esistenza qui non presuppone nulla avanti a sé, o prima di sé: è non un fatto, ma una possibilità, o, come scrive Heidegger, un progetto. L’esistenza è allora proprio l’essere sempre oltre di sé dell’ek-sistere. Dunque è impensabile un soggetto originariamente inteso, cui stia di fronte un mondo di oggetti.

D’altra parte non si può nemmeno ammettere che gli oggetti che l’uomo, come Dasein, incontra siano solo delle presenze, indipendenti e indifferenti. L’essere come presenza degli enti non è la maniera originaria in cui noi li incontriamo. Ogni conoscenza che presupponga la semplice presenza degli enti, ogni punto di vista teorico insomma, è solo un far venir meno l’originaria manipolazione nella quale gli enti sono già in relazione con noi. L’essere del Dasein è già sempre presso il mondo, già sempre aperto in esso, e le cose sono originariamente uso, utilizzabilità pratica. Anche la filosofia di Heidegger dunque pensa un immanentismo radicale in cui teoria e prassi coincidono, e in cui un atteggiamento solamente teorico costituisce semplicemente un caso possibile, una sospensione del manipolare vero e proprio.

La radicalità di questo immanentismo è espressa nell’esser-presso-il-mondo del Dasein, il quale, nella progettualità in cui consiste,  è  aperto  costituzionalmente alla  totalità degli enti. Infatti l’esposizione del Dasein è una pre-condizione: il suo umsicht, spaziare anticipatamente intorno a sé, implica la comprensione come tratto imprescindibile, irriducibile. Il Dasein è comprensione originaria perché nella sua costitutiva condizione di progetto è da sempre mescolato con le cose. Anche la situazione dell’esser gettato è una categoria dell’immanentismo: essa indica l’assoluta co-originarietà del Dasein con il mondo. Bisogna riflettere bene, cioè, sul senso heideggeriano della finitezza, che notoriamente costituisce la nota dominante della ricerca di Essere e tempo.

Come Gentile dieci anni prima, con essa il filosofo di Messkirch contrae risolutamente ogni precedente dualismo metafisico ricuperando, mi sembra, uno spazio di assolutezza. Non c’è nulla di fronte, diciamo così; nulla alle spalle. La stessa possibilità della morte, e la decisione anticipatrice che costituisce la radicalizzazione del possibile in se stesso, in quanto dà a ogni progetto il fondamento del nulla, conducono all’estremo il movimento di contrazione in cui l’uomo si identifica totalmente con il processo della realtà.

Heidegger definisce trascendenza la condizione per cui il Dasein “benché esista in mezzo agli enti e sia attorniato da essi, ha già sempre oltrepassato la natura” (L’essenza del fondamento, Colli, pag. 640). Oltrepassato verso che cosa, verso dove?

Il Dasein, “oltrepassando l’ente nella progettazione del mondo, deve oltrepassare se stesso, per potere, da questo punto supremo, comprendere se stesso come abisso senza fondo” (id. pag.677). Heidegger definisce questo sporgersi umano verso l’abisso della trascendenza come il movimento originario che realizza la libertà. La libertà è l’abisso senza fondo del Dasein.

 

Gentile e Heidegger

Gentile  e  Heidegger  pongono  lo stesso problema.

La verità metafisica si gioca su un volere che le è più originario, e che fondandola, perciò, la distrugge. La verità non ignora più ormai questo. O non può continuare a ignorarlo. Questo nodo fatale Gentile lo vede in un essere, o oggetto, presupposto al soggetto,  che fa credere che la verità appaia al nostro conoscere prima della volontà. Heidegger in una semplice presenza (di un soggetto e delle cose del mondo), che implicherebbe una relazione soltanto teorica fra l’uomo e il mondo. Allora Gentile toglie via ogni presupposto al pensiero, rendendo quest’ultimo una cosa sola con l’evento del mondo; così facendo, raggiunge una regione della libertà ben più originaria della verità e del volere (di ciascuno), benché inscindibile dall’una e dall’altro. E Heidegger interrompe Essere e tempo sulla differenza ontologica fra l’essere e l’ente, per dissolvere il fondamento in Ereignis, evento, la verità in abisso, il volere in Gelassenheit,  abbandono. Gentile dice l’atto “essere senza fondo”. Heidegger dice l’essenza del Dasein “abisso senza fondo”.

Nel secondo volume della Logica il filosofo siciliano definisce il pensare “la più ardua delle opere umane, quella che richiede dall’uomo maggior sacrificio, perché il pensiero è per l’appunto sacrificio di sé” (op.cit. pag.315).  Heidegger in Essere e tempo a sua volta avanza il problema dell’autenticità dell’esistenza, a fronte di un’esistenza inautentica, e nel discorso che tenne nel 1955 intitolato L’abbandono, commentando la trionfante avanzata del moderno diceva: “Per noi uomini la via che conduce a ciò che è vicino risulta sempre la più lunga e quindi la più difficile da percorrere. Questa è una via del pensiero” (L’abbandono, trad. Angelino, pag.37).

Naturalmente né l’uno né l’altro intendevano riferirsi semplicemente all’attitudine culturale, o alla curiosità intellettuale, o a più strabilianti conquiste scientifiche: si riferivano a quel nihil del pensiero umano, in cui esso è tanto più prossimo e fedele a sé, quanto più sembra perdersi e abbandonare i luoghi più sicuri.

                                                                                              m.c.

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