I.P.S.E.G. | Istituto Piemontese di Studi Economici e Giuridici
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Le nostre Scuole e il Mercato

Le nostre Scuole e il Mercato

Numero 75 – Maggio 2002

C’è, da qualche anno, un fenomeno nuovo e allarmante nello sparuto universo delle scuole cattoliche in Italia. E’ la chiusura di Istituti religiosi, che viene decisa da lontano, sulla base di calcoli sostanzialmente estranei ai fini delle scuole, e caratterizzati da ragionamenti di mero interesse economico. Siccome il fenomeno coincide con una particolare tipologia di Istituti, la proponiamo a quanti hanno a cuore il punto di vista dell’educazione delle generazioni

 

E’ un fatto che la stragrande maggioranza degli istituti religiosi oggi non dispone più di personale appartenente alla comunità religiosa, ma ha laici che insegnano, spesso dirigono e curano le amministrazioni delle scuole. La crisi vocazionale e l’avanzarsi dell’età dei pochi rimasti pone in modo sempre più grave la questione della continuazione nel tempo delle attività educative, che solo in modo precario sembra essere stata risolta con l’inserimento dei laici. Infatti il problema è quello di garantire la continuazione dell’attività scolastica anche quando venga a mancare, per ragioni di età o per vera e propria estinzione, una persona responsabile della Congregazione in loco.

 

Tuttavia il problema nasce anche da una seconda considerazione. Si verifica all’interno degli Istituti una discrepanza sempre più accentuata fra le proprietà che hanno la “gestione” delle scuole, e il lavoro vero e proprio svolto all’interno. Quasi sempre i gestori risiedono nelle Case Madri. Ciò porta a una inevitabile dissociazione tra gestione e lavoro, pur tenendo conto che all’interno degli Istituti “periferici” di norma vi è qualche religioso che “gestisce” con delega la scuola per conto del superiore residente altrove. Tuttavia la dissociazione tra gestione e lavoro resta, e custodisce in seno una possibilità di conflitto in relazione all’insorgere di situazioni critiche.

 

Il problema è questo. In che misura vengono rispettati i diritti effettivi del lavoro, da una gestione lontana e sostanzialmente estranea alle motivazioni concrete di chi insegna, o dirige, o è addetto a servizi entro la scuola? Nella maggior parte dei casi tale gestione ignora del tutto la stessa anagrafe delle persone che lavorano nella scuola lontana. Inoltre poco sa, o ricorda, delle vicende e del travaglio degli anni duri spesi per far crescere, istruire, educare le mobili generazioni. Per lo più, oltre tutto, le gestioni centrali vengono “consigliate” (ma spesso sono addirittura dirette) da consulenze professionali esterne. Questo può apparire un vantaggio, rispetto alla mancanza di idee di una comunità disorientata. Tuttavia questi consulenti (talvolta veri e propri faccendieri) possono facilmente introdurre nelle istituzioni cattoliche, a fronte di problemi di gestione, soluzioni estranee  alla loro storia, disegnando nuove prospettive economiche con un diverso impiego degli Istituti.

 

Cosa succede poi nelle scuole quando l’Istituto “periferico” perde il suo personale religioso? Qui bisogna ammettere che l’urgenza del problema non trova per adesso risposte adeguate. Con la sola eccezione dei Salesiani, non pare che il mondo delle comunità religiose abbia affrontato la questione con maturità. Vi sono al contrario molti esempi negativi, vale a dire di abbandono del campo dell’educazione scolastica, con gravi effetti di vuoto culturale e di atteggiamento cinico nei confronti del personale che vi lavorava.

 

E’ ben vero che qui subentra una questione non meno grave.  Quando  la  scuola  è in crisi

 

di bilancio a causa di un calo nel numero degli allievi o di incidenze economiche che pesano comunque in modo negativo, è la gestione che cerca di far fronte con qualche sacrificio finanziario. Questa situazione naturalmente ha dei limiti di tollerabilità. D’altra parte però non si dovrebbe comunque dimenticare che nessuna scuola cattolica può aver il suo scopo reale in un profitto, per quanto esiguo. E’ qui che nasce il concetto fondamentale, che la scuola è una scelta di servizio, non un business. Naturalmente, sostenere che la scuola non è un business suona da un decennio in qua abbastanza pleonastico. Tuttavia c’è una ragione per indurre le Congregazioni a non dimenticarsi di questo. Ed è il fatto che la pressione della “società” nella vita degli Istituti oggi è diventata notevole. Si può presentare facilmente l’occasione di trasformare le poco redditizie attività scolastiche in rendite comode e prive di rischio e remunerative.

 

Tutte queste considerazioni si ritrovano insieme in alcuni casi torinesi divenuti di dominio pubblico. Citiamo quello dell’Istituto Rosmini. La storia del Rosmini è quella di una perdita secca incominciata quando cominciò un’altalena di notizie portate ai quattro venti. In realtà il personale direttivo dell’Istituto, oltre a quello che insegnava, era coinvolto da tempo in un’epica, sfortunata lotta contro decisioni prese da lontano e, almeno in ordine alla realtà di quell’Istituto, completamente inspiegabili. La cospicua memoria di questi casi, sempre abbastanza simili, insegna che vi è una fase, più o meno lunga, di reticenze, di sotterfugi, di ritrattazioni, di mezze ammissioni. La situazione di incertezza perdura fino a un certo limite di tempo (un paio d’anni), allorché di colpo si impone la “volontà di chiusura da parte dei superiori”.

 

Oggi apprendiamo dalle cronache che l’Istituto Rosmini è stato ceduto nel 2001 a una Società d’affari che quasi in contemporanea lo ha offerto in affitto all’Ospedale delle Molinette per la cifra di 3 miliardi e mezzo l’anno. Mi guardo bene dall’entrare nel merito delle implicazioni giudiziarie della vicenda. Ma sollevo le questioni che ho appena finito di menzionare. La scuola era un ambiente di cultura, di catechesi, di formazione. Era poi un luogo di lavoro, con diretti responsabili (religiosi) impegnati sul campo, con insegnanti certamente di lunga esperienza e stimati da centinaia di famiglie. Tutto questo è stato sacrificato a che cosa?

 

Mi propongo di concludere con tre punti questa riflessione un po’ acida e molto amara. Il primo ricorda al lettore che quasi tutti gli Istituti cattolici che fanno scuola consistono in immobili (edifici e terreni) di grande valore di mercato. Che si possa aprire una “caccia” per metter le mani sulle loro potenzialità economiche è più che spiegabile. Lo stato di debolezza numerica dei pochi religiosi rimasti, la disaffezione di chi manovra da lontano, la scarsa attrattiva dei problemi di bilancio di ogni amministrazione scolastica non statale, l’allettante prospettiva di “riposare” (absit injuria verbo!) riscuotendo rendite o affitti al posto di dannarsi l’anima ogni giorno, possono essere altrettante ragioni per fare il salto di qualità, e mandare a ramengo (magari con tante scuse, tante cautele) una scuola!

 

Il secondo punto chiede se le istituzioni della Chiesa intendano restare a guardare come hanno fatto finora, in nome di una neutralità di fatto che contraddice in pieno la retorica del sostegno morale alle scuole cattoliche, data apparentemente solo in circostanze pubbliche. E’ davvero necessario che la tradizionale estraneità delle Diocesi alle vicende economiche e giuridiche dei beni delle Congregazioni si misuri seriamente con la finalità di servizio, per non dire di oblazione, che giustifica fino a prova contraria l’esistenza delle proprietà.

 

Il terzo punto riguarda l’urgenza di configurare seriamente il futuro di tante (o poche, ormai) scuole cattoliche che vivono esclusivamente del lavoro dei laici. Anche su questo la Diocesi dovrebbe saper dire una parola definitiva.

m.c.

 

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