Giugno 2002 – Numero 76
Nel dialogo della morte di Socrate, il Fedone, Platone fissa la concezione della verità in tre punti decisivi. Il primo è che, come il gigante Atlante sostiene il mondo sulle spalle, così il bene, nuovo Atlante assai più potente e immortale, tutto abbraccia e regge come aitia, cioè come potenza causale. Il secondo è che una tale potenza causale, cioè la verità, è come quando noi fissiamo il sole durante un’eclisse: non possiamo sopportare e siamo obbligati ad abbassare lo sguardo nel suo riflesso sull’acqua. Vuol dire che la verità non è cosa con cui si viene immediatamente a contatto, come accade per le sensazioni; essa è un’esperienza esclusivamente della mente. Il terzo è l’assunzione di un “più forte” logos, o principio unificante, come vero: in modo che riferendo qualsiasi ente a siffatto logos, “se concorda con quello, lo considero vero, se invece non concorda, non vero“. Platone chiama idea un logos del genere.
Così dava per i secoli avvenire le tre determinazioni essenziali della verità: la positività (è il bene), la separazione (si sottrae ai sensi), la necessità (logos, costrizione). E apriva così una questione fondamentale, quella della verità per noi. Per noi la verità risulta essere una concordanza con la verità in sé. In un’impostazione di questo genere, la verità è in diretta relazione al non vero, cioè al falso e all’errore. Si tratta di una svolta capitale, perché se vero e falso costituiscono i termini immanenti a ogni nostra esperienza conoscitiva, la loro determinazione diviene allora un problema cruciale, perché ne va in ogni caso della scelta del bene. Questo significa anche che per Platone il problema è non solo teorico, come si dirà poi sempre, ma anche inseparabilmente etico: il vero riguarda innanzitutto l’universo delle azioni umane. Vediamo cosa significa tutto questo e quali problemi ne derivano.
Come positivo, è necessario dunque intendere
il vero in riferimento al falso, di cui è la negazione. Il non vero, cioè l’errore e il falso, è inseparabile dal vero. Ciò conferisce, diciamo così, eloquenza al vero, che contiene in sé la confutazione del falso, il quale viene sospinto nelle regioni extra-logiche dei sensi, delle passioni e delle emozioni. Ma queste, in fin dei conti, sono il dominio della nostra esperienza temporale, da cui è assente quel carattere di necessità che conferisce stabilità, immutabilità ed eternità al vero. Ciò spiega perché la nostra esperienza, per realizzare una qualche compiutezza, deve adeguarsi alla verità come a un modello. La concordanza è la condizione che rende vera la nostra esperienza in relazione a una verità che, in ultima analisi, è eternità.
Ma per essere davvero un modello per noi, ci deve essere già qualche somiglianza tra la verità e la nostra esperienza umana. Poiché la verità si sottrae alle nostre passioni, emozioni, sensazioni ecc. (in futuro si parlerà di trascendenza), Platone dunque sostiene che la nostra esistenza può adeguare la condizione dell’eternità esclusivamente nella forma del pensare. Il pensare dunque possiede un’affinità col vero. Come? Alla base del vero in sé, c’è una struttura logica che consiste nell’affermazione dell’identità (non come due gocce d’acqua, ma come rosa corrisponde a fiore) fra due termini posti in relazione fra loro. Ma noi sappiamo benissimo che questa è la cellula di ogni nostro pensiero, vero o falso che sia, poiché per pensare dobbiamo far coincidere il soggetto e il predicato. Ebbene, il vero possiede questo carattere anche in se stesso, nella forma della relazione eterna fra le idee. Le idee realizzano un’immensa struttura logica, una rete in cui si moltiplica la relazione di soggetto e predicato.
Più esattamente, ogni idea appartiene da sempre a una piramide di predicati, ed è soggetto di quelle sovrastanti, predicato di quelle sottostanti, così da escludere contemporaneamente altre idee, che non fanno parte di tale piramide. Appartenere, escludere sono termini somiglianti ai processi di analisi/sintesi logica che costituiscono la nostra esperienza temporale. La differenza sta in questo: che, nel dominio delle idee, appartenenza ed esclusione sono già poste, già date (da sempre); invece nella nostra esperienza del vero esse sono sempre in gioco come scelta tra il vero e il falso, e perciò dobbiamo sempre cercare e trovare la soluzione di un problema.
L’intera questione è posta da Platone nel dialogo Il Sofista, che appartiene alla sua maturità. I lettori del Sofista sanno che Platone, cercando la definizione del sofista, fonda la possibilità della simulazione, del falso e dell’errore. Infatti è possibile definire il falso come falso, e non come semplice espressione del relativismo universale (Gorgia), solo alla luce della definizione del vero. Di qui lo sforzo di Platone di costruire come vero un pensiero relazionale conforme a quello eternamente vero. Questo pensiero relazionale, o dialettico (che significa pensiero della relazione dei lògoi, o idee), si avvale di un’arte speciale, di un’abilità a tagliare a metà lungo le linee di connessione delle parti di un organismo. E’ la dicotomia, arte del giusto taglio.
Tuttavia sorge il problema: in base a quale criterio è costruito il sistema, dal momento che esso, a sua volta, diviene poi il criterio del pensare umano? Vediamo. Il pensare umano si svolge nel tempo e perciò si muove nella possibilità. Il possibile è la categoria della temporalità, perché noi ci troviamo a pensare, e cioè a esprimere il vero, nella situazione di limite tra il già noto e l’ignoto. Ciò vale per qualsiasi nostro pensiero, banale o profondo. Pensare significa sempre passare dall’ignoto al noto attraverso la tenebra del futuro, che per noi altro non è che l’ignoto. Ciò significa allora che il vero, benché eterno, entra nel possibile del pensare, e dunque in una difficile relazione tra eterno e temporale. La relazione è intesa da Platone come una tensione fra due piani di realtà, uno dei quali è modello, l’altro imitazione. L’ignoto fa sì che noi pensiamo, passando dal non sapere al sapere, ossia dal temporale all’eterno.
Ma l’eterno è il vero, poiché le attribuzioni eleatiche del vero, che poi Platone eredita, consistono appunto nell’esclusione di ogni categoria temporale: movimento/mutamento. Tuttavia qui la cosa si complica. Se Parmenide risolvendo il pensiero nell’essere ha un criterio dato dall’assenza di movimento/differenza (del pensiero che si “dissolve” nell’essere), quale criterio possiede Platone per giustificare la coincidenza dei nostri giudizi con la verità, dato che questa non è (come per Parmenide) un essere indifferenziato, ma un movimento di giudizi? Qui spunta l’impianto critico delle Categorie di Aristotele, che mette in discussione l’intera impostazione del suo maestro.
Aristotele accusa la teoria delle idee di praticare un circolo vizioso. Se pensare è adeguare i nostri giudizi all’eterna analisi logica delle idee, come è possibile sapere quando questa conformità si avvera, dal momento che il modello è, da un lato, ciò che cerchiamo, dall’altro dovrebbe fungere da criterio per il nostro stesso cercare? Il metodo dicotomico, osserva Aristotele, non distingue tra determinazioni essenziali e determinazioni accidentali, si basa sulla pura e semplice constatazione, non sulla necessità della scelta di uno dei due termini, e in definitiva postula quello che si propone di provare.
Vi è però un testo platonico capace di battere l’obiezione aristotelica, ed è Il Convito. Esso costituisce la chiave, ineliminabile, dell’intera teoria delle idee. Il dialogo (che dialogo propriamente non è) dell’amore ripiglia l’intera questione del tempo e dell’eternità alla luce di un’evidenza universale, la potenza della bellezza nell’esistenza di ogni essere. C’entrano l’amore e la bellezza con la conoscenza della verità? L’amore ha questo di caratteristico, che è uno stato di sconvolgente mancanza; e causa di un tale stato è la bellezza.
Nel Convito Socrate ricorda gli insegnamenti di Diòtima, la donna iniziata ai misteri di Eros. L’attrazione del bello nella vita degli uomini non può che significare la potenza del bene: in cui consiste, dicevamo sopra, la verità. Ma il bene, che è all’origine delle idee, non è mai presente, perché la sua natura è nascosta. Si badi, questo vuol dire che secondo Platone sensazioni, emozioni ecc. impediscono alla nostra mente di incontrare immediatamente il bene (la verità!). L’eternità ci è come sottratta dal flusso temporale della nostra esistenza sensibile. Tutte le idee perciò sono nascoste, tranne una. La bellezza, che pure è un’idea, appare nel sensibile. La bellezza è visibile, e ciò significa che si manifesta nell’immediatezza della nostra esperienza temporale, assieme al desiderio e alla passione che può suscitare in noi. Ciò viene detto in un altro grande dialogo, Il Fedro.
Chi ama, che cosa ama? La risposta di Socrate a Diòtima è “possedere ciò che è bello”. Ma la donna lo incalza. Che cosa si vuole, con il possesso del bello e del bene (che è la faccia nascosta del bello)? La risposta sembra ovvia ma non lo è. Entrambi convengono sul fatto che col possesso del bello e del bene si vuole ottenere la felicità. Il desiderio di felicità è la vera causa dell’amore. Ma la felicità è l’eternità del possesso. Ed è qui che il Convivio compie una svolta essenziale. L’eternità si affaccia come la vera protagonista del dialogo della bellezza e dell’amore. Diòtima insegna a Socrate che al cuore dell’amore e della bellezza c’è un desiderio di generare. Ed è la bellezza a suscitare un tale desiderio. La presenza della bellezza è condizione necessaria all’atto del generare e del partorire, sia per i corpi che per lo spirito. Questo significa che noi mortali, generando nella carne e nello spirito, ci vogliamo eternare.
La natura mortale, sostiene Diòtima, desidera essere immortale, per quanto possibile. Ma resta sempre nel tempo. Questa mediazione fra tempo e eternità consiste nella volontà di generare, che in senso spirituale significa creare, oltrepassando la propria esistenza, qualche opera grande e duratura. Ed è così che la bellezza, unica tra le idee a farsi manifesta nel tempo, reca il brivido dell’eternità sulla terra. L’eternità, riguardo ciò che è di natura mortale, non consiste in una impossibile identità con se stessi, anzi: essa chiede di andare sempre oltre di sé, generando. Il desiderio di eternarci come gli dèi perciò è la vera chiave dell’attrazione della bellezza, in cui solo è dato di creare qualcosa di immortale. Ma vi è di più. L’amore suscitato dalla bellezza non si appaga mai. Mai, dice la donna di Mantinea, il nostro desiderio di bellezza si acquieta veramente. E perché? Perché ogni sua manifestazione, nei corpi, nelle opere civili, nella sapienza, è solo un riflesso precario, temporale, dello splendore dell’eterno: bello immutabile, assoluto e semplice. Ma è possibile un tale evento, incontrare la bellezza che fa belle tutte le cose che ci appaiono belle?
Avevamo raccolto l’obiezione fondamentale di Aristotele alla concezione platonica della verità: Platone postula ciò che sostiene di voler trovare. Ma la bellezza abita questa terra, benché la abiti come una straniera. La bellezza è visibile, tocca sorprende e sconvolge i nostri sensi, e ciò vuol dire che ci raggiunge nel tempo, è il manifestarsi della verità eterna nel tempo, luce che quaggiù squarcia le tenebre dell’ignoto. Per lei, al suo impulso a generare (cioè al nostro desiderio di eterno), si fa sensibile quaggiù un cammino dialettico che ripercorre i gradi eterni della dialettica delle idee.
Infatti, dalla bellezza originariamente amata in un solo corpo, l’amante è poi attratto dall’unica bellezza presente in ogni corpo (e non di uno solo), partorendo così pensieri sempre più elevati; e verrà più forte, poi, il desiderio della bellezza delle anime, più che dei corpi; e oltrepassato questo, sarà la volta delle maniere di vita, poi delle proprie istituzioni e poi ancora delle conoscenze, fino al punto di sprezzare l’attaccamento a un solo oggetto, poiché egli si volge ormai “al vasto mare del bello”: per incontrare, in un istante, quel bello eterno “che non nasce né perisce”. E’ così che nella nostra temporalità discende la lingua del vero. Pochi naturalmente percorrono tutta la vertiginosa altezza di quella scala, i più arrestandosi ad un qualunque gradino. Ma il vero e l’eterno, con la loro intima dialettica, sono già presso di noi, e tocca a noi non fermarci ma seguire il loro raggio temporale.
m.c.